Una sostituzione su larga scala, una cosa mai vista. Il richiamo all’ordine di maggioranza colpisce quasi la metà dei rappresentanti del Pd in prima commissione alla camera, ma il gruppo dirigente renziano lo presenta come normale amministrazione: «Era già stato deciso», «sono loro che non se la sentono», «in commissione si sta per seguire la linea del gruppo». E così sono dieci i deputati del partito democratico ai quali viene chiesto di togliere il disturbo dalla commissione affari costituzionali. Altrimenti avrebbero votato contro la nuova legge elettorale, contro il mandato ai relatori o almeno a favore degli emendamenti che, con il sostegno delle opposizioni, sarebbero certamente stati approvati.

La sostituzione fa a pugni con il divieto di mandato imperativo previsto dalla Costituzione (articolo 67), eppure si sono già sentite spericolate teorie in base alle quali il diritto alla libertà di giudizio del parlamentare sarebbe garantito solo in aula e non in commissione. Lo si era sentito l’anno scorso al senato, quando il Pd aveva proceduto ad analoga sostituzione, ma di un solo senatore contrario alla riforma costituzionale. Una decisione che provocò l’ammutinamento di altri 14 senatori Pd, poi convinti a rientrare dopo la promessa del capogruppo che – per carità – non si stava introducendo il vincolo di mandato. Ieri sera la seconda puntata, che visti i numeri prevede anche un secondo tempo assai eloquente: prima di provvedere alle sostituzioni il vicecapogruppo Rosato (il titolare Speranza è dimissionario) ottiene dai subentranti l’assicurazione che obbediranno alla linea del gruppo. Cioè del governo. Cioè di Renzi.

Così selezionato, il gruppo del Pd marcerà compatto verso la bocciatura di tutti i 97 emendamenti, anche di quelli più insidiosi che vedrebbero la convergenza di tutte le minoranze e le opposizioni. Si tratta di tre o quattro proposte di modifica condivise da sinistra Pd, Sel, 5 Stelle e in qualche caso anche Forza Italia, Lega e potenzialmente persino di Scelta civica, il cui piccolo gruppo residuo attraversa una fase di freddezza con il governo. La possibilità di apparentamento tra primo e secondo turno, la previsione di una soglia minima di partecipanti al ballottaggio per assegnare il premio di maggioranza, la diminuzione della quota dei «nominati» e il contestuale aumento degli eletti in base alle preferenze e infine la riduzione delle pluricandidature ammesse. L’approvazione anche di una sola di queste modifiche riporterebbe la legge elettorale davanti al senato. Per evitarlo, Renzi ha scelto di colpire duro la sua minoranza. E così si è avviato verso un possibile voto di fiducia che potrebbe servire a evitare rischi in aula proprio sugli emendamenti. Ma neanche il capo del governo potrà evitare il voto segreto finale sulla legge. E a quel punto potrebbe aver bisogno del sostegno non dichiarato di una parte del gruppo di Forza Italia.

La reazione dei deputati di minoranza sostituiti ieri sera è piuttosto contenuta. Alcuni, come Bersani e Cuperlo, avevano già espresso la disponibilità, per quanto polemica, a farsi da parte. Altri come Pollastrini riconoscono il diritto della maggioranza di imporre la linea. Un po’ tutti si tolgono un peso, e rinviano ancora la battaglia in aula. Nessuno fa resistenza, con un richiamo agli organi di partito o a quelli della camera. Eppure la faccenda lo meriterebbe, visto che stabilisce un precedente e in pratica cancella il diritto al dissenso in commissione. Nessuno chiama in causa la giunta per il regolamento, magari per far notare che nel testo dell’articolo 19 si parla della possibilità di sostituire «un commissario con un altro di diversa commissione», non dieci.
E i dieci nuovi designati del Pd faranno oggi pomeriggio il loro esordio in commissione accanto ai tredici che hanno giurato fedeltà al governo. Cinque stelle, Sel e Forza Italia proveranno a bloccare i lavori. «È inutile partecipare alla farsa», dice il grillino Toninelli. «Tutto è già deciso, il parlamento non conta più nulla, a questo punto ogni strumento è lecito contro questo strappo alla democrazia», aggiunge il vendoliano Quaranta. Ritiro degli emendamenti, ostruzionismo, Aventino, appello a Mattarella. Tutto già visto, nella marcia delle riforme.