Qualche blocco stradale, qualche tafferuglio, ma nel complesso (e fino al momento per noi di andare in stampa) l’unica battaglia, in Venezuela, è stata quella dei numeri: i numeri della partecipazione alla «gran toma de Caracas» (la gran presa di Caracas), convocata dall’opposizione, e quelli delle concentrazioni chaviste. Per Henrique Capriles – il candidato due volte sconfitto, prima da Chavez e poi da Maduro, del partito Primero Justicia -, che è abituato a spararle grosse, «si è trattato probabilmente della più grande mobilitazione della storia». Chuo Torrealba, segretario esecutivo della Mesa de la Unidad Democratica (Mud, il cartello di opposizione che raccoglie tutte le sigle antichaviste), ha rilanciato: «Il 14 settembre prenderemo tutto il Venezuela. Dopo che il Cne avrà comunicato il cronogramma della raccolta di firme necessarie al referendum, prenderemo per 12 ore tutte le capitali del paese».

Quella del «revocatorio subito» che mira a saltare le tappe previste pur di liberarsi al più presto del presidente Nicolas Maduro è stato uno degli slogan più gettonati, insieme a quello che diceva «basta col socialismo» e ad altri che sciorinavano i mantra delle destre: «siamo in crisi umanitaria, abbiamo fame, la comunità internazionale deve intervenire». E poco importa se, nei quartieri agiati dove sfila e governa l’opposizione, di fame se n’è sempre vista poca, i ristoranti dove una pizza costa come uno stipendio sono sempre pieni quanto gli scaffali dei supermercati e il portafogli di chi può permettersi di farvi la spesa. Nei quartieri popolari, invece, i prodotti sussidiati dal governo mancano o non arrivano, deviati dalle mafie del contrabbando verso il mercato nero, all’interno oppure oltrefrontiera (in Colombia) e venduti a prezzi stellari. E si sta in coda per ore.

Il governo denuncia da anni «la guerra economica» scatenata dai grandi gruppi imprenditoriali e da quelli multinazionali per esacerbare il popolo chavista e indurlo a togliere il sostegno al governo. E difatti un risultato si è ottenuto alle elezioni parlamentari del 6 dicembre, quando le destre sono risultate maggioritarie in Parlamento: non perché abbiano aumentato di molto i consensi, quanto perché agli oltre 4 milioni di voti del chavismo sono venuti a mancare quelli necessari a vincere. L’opposizione e i suoi sponsor internazionali hanno sempre negato l’esistenza del sabotaggio. Nel gioco di botta e risposta che ha preceduto la marcia di ieri, qualcuno, però, ha ammesso che la guerra economica fa parte di un’insieme di azioni per far cadere il governo: «Chi nega che in Venezuela esista una guerra economica, mente», ha detto Freddy Guevara, deputato di Voluntad Popular (Vp).

Il suo partito è quello di Leopoldo Lopez, in carcere per le violenze di piazza (le «guarimbas») che, nel 2014 hanno provocato 43 morti e 850 feriti. Molte vittime sono morte per colpi di arma da fuoco (per lo più tra le forze dell’ordine) o sgozzati dalle trappole tese dai «pacifici» manifestanti. Lopez – che nel 2002 era in prima fila (insieme a Capriles) nel colpo di stato contro Hugo Chavez – ieri ha inviato una lettera dal carcere. La moglie, Lilian Tintori, attivissima sulla scena internazionale, era in prima fila tra le «dame in bianco» che hanno sfilato imitando le anticastriste di Miami.
Torrealba ha letto «il manifesto della presa di Caracas». Un proclama per «riscattare il paese dalla penuria alimentare, dall’assenza di medicine… Riscattarlo soprattutto da un presidente, da un regime che ha messo dittatura dove dev’esserci democrazia, povertà dove dev’esserci prosperità, insicurezza dove dev’esserci fiducia». Le cifre che la leadership della Mud ha offerto al paese durante gli anni della IV Repubblica – in termini economici e di diritti violati – bastano a svestire il fiume di retorica con cui il «manifesto» ha proposto l’abbraccio sia «agli oppositori tenaci che ai chavisti delusi, ai poveri di sempre e agli impoveriti di ora, dall’Est all’Ovest, dal Nord al Sud…».
Ma tant’è. Il chavismo ha le sue magagne e le sue gatte da pelare nel voler cambiare dall’interno la «macchina statale borghese», depotenziandone i meccanismi mefitici senza esserne impregnata. Le cifre di chi va in carcere per corruzione, anche nella compagine governativa, mostrano però la volontà di opporre i necessari anticorpi. L’aver mantenuto fermo il timone a favore dei settori meno favoriti senza far pagar loro la crisi, indica lo spessore di un progetto che continua a marciare controcorrente. E se finora non vi sono stati saccheggi e rivolte, nonostante l’impegno messo dai settori oltranzisti dell’opposizione, è perché il popolo ha le idee chiare. E infatti, anche l’area del «chavismo critico», che rema per costruirsi una porzione di consenso, sparando bordate nelle due direzioni, si è sfilata dall’abbraccio del pitone proposto dalla Mud: pur mantenendo una posizione formale sulla necessità di «garantire il referendum», ha detto chiaro e forte che non sarebbe scesa in piazza con la Mud.
La seconda tappa del referendum è stata fissata nella settimana a partire dal 23 ottobre, ma l’opposizione vuole accelerare e ha annunciato che il 7 settembre manifesterà davanti al Cne. «La Mud, pur con tutte le differenze interne, è cresciuta e sta diventando un interlocutore valido, capace di mettere in atto i nostri indirizzi», dice un rapporto Usa del Comando Sur, portato in luce dai giornalisti. Ieri, il governo ha detto di aver scoperto un accampamento di paramilitari a 500 metri da Miraflores. I leader chavisti hanno fatto il consueto bagno di folla e sostenuto di aver surclassato le destre: «Ancora una volta hanno perso, la vittoria è del popolo, della pace della rivoluzione», ha detto Maduro davanti a una folla convinta di camice rosse.