«Quando lei e Ed si erano trasferiti lì, il quartiere era abitato da irlandesi, italiani, greci ed ebrei, e conoscevano tutti nell’isolato. Poi le famiglie avevano cominciato ad andarsene, una dopo l’altra, e al loro posto stavano arrivando colombiani, boliviani, nicaraguensi, filippini, coreani, cinesi, indiani e pakistani. Connell giocava con i nuovi ragazzi, ma lei non andava mai a conoscere i genitori (…). La maggior parte dei negozi che amava non c’erano più, sostituiti da altri che vendevano ninnoli e gingilli (…). Bar dall’aria losca, fast food, commercianti all’ingrosso di cibi misteriosi, ristoranti che sembravano fumerie d’oppio, botteghe piene di prodotti che mai e poi mai si sarebbe sognata di mangiare (…). Sapeva che i cambiamenti potevano essere considerati una parte di ciò che rendeva grande la città, un’immagine di quello che sarebbe venuto, il ciclo necessario dell’immigrazione; ma solo se non eri tu a dover traslocare, o se avevi la disposizione di spirito di un santo. Eileen non aveva alcun desiderio di diventare santa, non se questo significava smussare la rabbia che provava per quelle persone».

Il sedimentarsi delle storie individuali e collettive delle mille comunità che popolano da sempre New York, la convivenza che si fa ogni giorno più difficile nei quartieri popolari della grande metropoli, fino a sfociare anche in forme di aperto razzismo sono alcune delle molteplici chiavi di accesso a Non siamo più noi stessi, il romanzo rivelazione della scorsa stagione letteraria americana che Neri Pozza (pp. 736, euro, 19,50) pubblica ora in Italia nella traduzione di Chiara Brovelli. Matthew Thomas, giovane docente della Johns Hopkins University, che intorno a questo suo esordio narrativo ha lavorato per circa dieci anni, ha costruito una sorta di saga che ruota intorno alla figura di Eileen Tumulty, figlia di immigrati irlandesi stabilitisi nella zona del Queens, di cui seguiamo le vicende dagli anni Cinquanta fino ai nostri giorni, in quello che appare come un romanzo della storia americana, del definirsi e dello sgretolarsi dell’identità profonda del paese e delle tracce di tutto ciò che restano appiccicate inesorabilmente alla vita di ciascuno. Temi che evocano il clima che fa da sfondo a una strage razzista come quella perpetrata a Charleston solo pochi giorni fa.

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La drammatica presenza del razzismo e delle discriminazioni nella società statunitense aleggia su molte pagine del suo libro. In molti pensavano si trattasse solo di un residuo tossico del passato, ma l’escalation violenta degli ultimi mesi ci dice che non è così…

Proprio quando pensavamo che le cose stessero cominciando ad andare meglio sul fronte dell’integrazione e dei diritti delle minoranze, è scoppiata la grande crisi economica e finanziaria che ha reso sempre più difficile la vita per la gran parte degli americani: i salari si sono bloccati e la tradizionale sproporzione tra i molto ricchi e i molti poveri si è fatta sempre più evidente, al punto che siamo arrivati a una condizione  paragonabile a quella di un paese del Terzo mondo.
Una situazione che ha favorito il diffondersi, o meglio il riemergere, delle tesi dell’estrema destra razzista che indica minoranze e immigrati come un facile capro espiatorio su cui riversare il crescente malessere. Si deve anche tenere conto del fatto che, perlomeno a partire dal periodo della presidenza di Lyndon Johnson (tra il 1963 e il 1969) che varò un vasto programma che mirava a trasformare in norme concrete l’anelito all’uguaglianza, sia razziale che sociale, espresso dal movimento per i diritti civili degli afroamericani, il vecchio razzismo suprematista ha cominciato a fondersi con le correnti politiche che criticavano il «big government», vale a dire l’idea che il governo federale stesse crescendo troppo quanto a numeri e poteri, mettendo in discussione le stesse libertà fondamentali e lo spirito del «self-made», individualismo e autodeterminazione dei singoli, su cui si basa l’identità del paese. Fin da allora, il sentimento antigovernativo si è legato al razzismo puro e semplice e i due fenomeni si sono rafforzati l’un l’altro, come si vede chiaramente ancora oggi. Nel pieno della crisi l’americano medio, bianco è spinto a pensare come vi siano piani e sussidi che favoriscono le minoranze a suo scapito e per questa via può avvicinarsi alle tesi della destra repubblicana o dell’estremismo razzista.

Eppure, quando Obama fu eletto nel 2008, molti osservatori parlarono della genesi di una «società post-razziale», dove il colore della pelle non avrebbe rappresentato più un fattore di discrimine… Cosa è accaduto?
Cambiamenti profondi richiedono tempi geologici, non si possono realizzare così in fretta, semplicemente nell’arco di una generazione o due. E per capire cosa è accaduto, da dove parta la strada che conduce a Charleston, si deve guardare all’immediato, agli ultimi anni. L’arrivo alla Casa Bianca del primo presidente afro-americano ha annunciato la possibilità che divenissero concrete quelle che, a lungo, sono apparse solo come delle promesse non mantenute della nostra vita politica e sociale – che si potesse togliere l’America dalle mani delle élite conservatrici e razziste che l’hanno così a lungo dominata. Ma sul breve periodo, il peso di Obama come simbolo è risultato più grande e forte per la destra che ne ha fatto un nemico da combattere e contro il quale galvanizzare i propri militanti. Questo, mentre i liberal – i progressisti come si dice in Europa – che per costituzione e per natura reagiscono con tempi diversi, più lentamente, lo hanno sostenuto solo fino a un certo punto. In questo senso, non sembri solo un gioco di parole, i reazionari hanno dimostrato di saper «reagire» molto più rapidamente, occupando la scena in tutto il paese in funzione anti-Obama e scatenando una vasta campagna d’odio.

Più in generale, il razzismo continua a restare uno dei principali problemi di una società come quella statunitense, nonostante sia fondata proprio sul progressivo – e inesorabile – mescolarsi delle diverse comunità e sul costante arrivo di nuovi immigrati. Eppure, anche la protagonista del suo romanzo, Eileen, un’irlandese-americana di seconda generazione, legge nello «sbarco» di famiglie provenienti non più dall’Europa come era avvenuto fino al Secondo dopoguerra, ma dall’America centrale o dall’Asia, un segno di decadenza del quartiere di New York in cui vive. Come spiegarsi questo apparente paradosso?
Dobbiamo considerare il fatto che le persone, noi tutti se ci pensiamo bene, hanno la tendenza a dimenticarsi in modo piuttosto rapido della storia. A cominciare dalla propria. Eileen, nata e cresciuta in seno alla comunità dell’immigrazione irlandese di New York, arriva al punto di vedere i cambiamenti che avvengono nel suo quartiere esclusivamente come un tratto di declino, e questo solo perché la zona non assomiglia più, sul piano per così dire etnico e culturale, a quella in cui è cresciuta. Eileen non riesce a comprendere il cambiamento in atto e a cogliere fino in fondo il significato di quanto osserva per quello che in realtà è: una sorta di ripetizione, con altri protagonisti, di quello che era successo ai suoi genitori, mezzo secolo prima: avevano portato la loro identità irlandese in quelle stesse strade della grande città, per poi integrarsi e arricchire la società americana.
Lei invece non si riconosce in questo processo continuo e guarda ai «nuovi arrivati» come a una specie di minaccia, in ogni caso come al simbolo della perdita di status che lambisce il quartiere e quindi anche la sua stessa famiglia. E il motore principale di questo atteggiamento è proprio l’interesse economico, il fatto di aver raggiunto, o di pensare di averlo fatto, un determinato livello sociale da cui si teme di poter tornare indietro. È questo che spinge le persone come Eileen, tanti americani figli o nipoti di immigrati, a chiudere la porta in faccia alle nuove – o alle altre, come nel caso del razzismo che colpisce gli afroamericani – minoranze: l’egoismo porta all’oblio. Anzi, è proprio perché si vuole dimenticare la povertà e marginalità di un tempo che spesso si decide di non vedere come la storia si stia solo riproponendo con altri interpreti.

Eileen non si riconosce nei nuovi immigrati anche perché insegue disperatamente, fin da ragazzina, un progetto di affermazione sociale che la faccia uscire dalla zona operaia e irlandese in cui è cresciuta. È riduttivo leggere nella sua vicenda una metafora del sogno americano?
No, a patto che si tenga conto del fatto che, in quanto donna, lei deve però misurarsi con difficoltà ulteriori e con un modello sociale che negli anni Cinquanta e Sessanta, quando frequenta le superiori e studia per diventare infermiera, tratta a loro volta le donne come appartenenti a una minoranza a cui sono riconosciuti solo diritti e possibilità parziali. D’altra parte dobbiamo però osservare che è vero che Eileen è donna, è povera, appartiene a una famiglia di immigrati irlandesi, per di più cattolici, vale a dire ancora una volta una minoranza anche in termini religiosi nel paese, e per tutte queste ragioni farà fatica ad affermarsi nella società americana, ma è pur sempre bianca. Non conosce cioè le forme di ulteriore e spesso tragica discriminazione che colpivano, allora come in seguito, gli immigrati provenienti da altre parti del mondo o gli afroamericani.
In altre parole, pur tra molte difficoltà, lei riuscirà a raggiungere almeno in parte ciò che desidera, mentre ad altri, e sempre più spesso negli ultimi decenni, da quando chi arriva negli Stati Uniti proviene perlopiù dall’America Latina o dall’Asia, sarà negato per sempre. Essere bianco fa ancora oggi la differenza nel mio paese.