Gli anniversari e le celebrazioni di eventi storici, come sappiamo, favoriscono una certa produzione memorialistica di varia qualità. Non poteva sottrarsi a questa dinamica il settantesimo della Liberazione, evento che ha stimolato le più diverse celebrazioni, soprattutto in campo bibliografico. Una vera e propria superfetazione editoriale ha inondato librerie ed edicole. Romanzi e saggi hanno cercato di riproporre l’attualità di una vicenda che, dopo tanti decenni, è sempre più svincolata dal racconto politico del nostro paese e delle nostre “origini”, relegata ad una memorialistica imbalsamante più che ad una difesa delle ragioni ideali, e attualissime, che produssero quel processo politico.

Tra la varia pubblicistica apparsa in questi mesi, un testo si distingue tra gli altri, capace di presentare un discorso storico decisamente più alto dei tempi che corriamo. Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri, 177 pp, 15 euro) è un antologia a due voci, quelle di Norberto Bobbio e Claudio Pavone. Una raccolta di testi già pubblicati, e che però oggi hanno ancora la forza di rappresentare una visione illuminata e contraria a una certa pacificazione storiografica e politica sul discorso resistenziale. Un testo, avremmo detto un tempo, necessario.

Come sappiamo i due autori, in particolare Pavone, sono conosciuti in campo storiografico per aver affermato e provato la natura civile della guerra di Resistenza sviluppatasi in Italia tra il 1943 e il 1945. Un discorso forte, che ruppe una certa tradizione politico-culturale affermatasi circa negli anni sessanta e promossa in primo luogo proprio dal Pci, e che ancora fatica a divenire senso comune, nonostante la più che dimostrata tesi che lo scontro prodotto nella Resistenza fu soprattutto tra italiani, e non (solo) tra questi e l’invasore tedesco-nazista. Un’ovvietà che per ragioni politiche tutt’ora viene negata, almeno a livello culturale mainstream. Le domande che vorremmo porci oggi, nell’estremo tentativo di contribuire nella ricerca di un periodo storico profondamente indagato, sono di due tipi: come è andato affermandosi il carattere nazionale unitario della guerra di Liberazione, ma soprattutto, è ancora valido il concetto di guerra civile così come spiegato da Claudio Pavone?

Riguardo alla prima questione, siamo di fronte ad un paradosso della ricerca storica. Sebbene la storiografia legata al Pci sia stata quella che più ha indagato le vicende della Resistenza, dato il carattere “fondante” che l’episodio riveste nella costruzione politico-immaginaria del “partito nuovo” togliattiano, proprio questa ha contribuito a una certa “monumentalizzazione” della guerra partigiana, impedendo alla ricerca di sviscerare quei tratti storicamente meno spendibili in termini di legittimazione politica.

Non è un caso che la guerra civile sia un discorso prodotto da uno storico non legato al Pci come Pavone, e portato avanti da altri, come lo stesso Bobbio, appartenenti a tutt’altra formazione politica. Il fatto è che il carattere civile della guerra partigiana era ampiamente fatto proprio dai combattenti e dai dirigenti politici durante la Resistenza. E’ solo dopo che tale segno viene negato. In particolare, è la convergenza di due interessi politici. Da un lato la Democrazia Cristiana non volle appaltare unicamente alle forze comuniste il ricordo politico di quell’evento, spingendo alla costruzione di una “memoria condivisa” volta a individuare nella Resistenza soprattutto un moto popolare contro lo straniero. L’altro interesse convergente è quello appunto del Partito comunista, volto a legittimarsi politicamente come partito della difesa dell’ordine costituzionale sfruttando l’esempio della Resistenza, momento in cui invece di “lottare per il potere” contribuì alla liberazione di tutti gli italiani.

Più interessante è capire se il discorso sulla guerra civile sia ancora utile per comprendere la vicenda storica nel suo complesso. Come sappiamo, l’espressione “guerra civile” è una sintesi di un ragionamento più complessivo. Per Pavone infatti durante la Resistenza si combatterono tre guerre: una guerra di liberazione nazionale contro lo straniero invasore, una guerra civile tra fascisti e antifascisti, una guerra di emancipazione sociale, o di classe, tra lavoratori e padroni. Tali caratteri, nei combattenti, a volte si sommavano a vicenda, a volte erano esclusivi. Per un militare italiano del regno del sud, la guerra consisteva principalmente, se non unicamente, in un tentativo di liberazione nazionale. Per gli antifascisti del nord (dove era presente il ricostituito governo fascista della Rsi) tale obiettivo si sommava alla necessità politica di abbattere il fascismo. Per i lavoratori, questi due obiettivi si congiungevano in una sorta di resa dei conti storica con il padronato. La sintesi determinata anche da ragioni editoriali, fu intitolare il saggio di Pavone Una guerra civile, contribuendo così alla fortuna della sua tesi schiacciando però tutto il discorso sul carattere civile, appunto. Anche per Pavone, in ogni caso, il dato dello scontro civile tra italiani costituiva il carattere dominante del conflitto.

Trent’anni dopo è però possibile rimettere in discussione alcune parti di questo ragionamento. In realtà, come peraltro affermano lo stesso Pavone e Bobbio, la guerra civile italiana si inserisce in una più generale guerra civile europea iniziata nel 1914 e terminata con i trattati di pace del 1945. La risposta reazionaria di massa rappresentata dal fascismo e dal nazismo altro non era che l’estremo tentativo di contenere la partecipazione delle masse diseredate alla politica. Masse popolari per la prima volta affacciatesi nel cielo della politica con l’obiettivo di un’emancipazione sociale non più rimandabile. E’ una “guerra di classe”, allora, che si impose sulla scena europea per un trentennio, e le articolazioni che questa prese nei diversi contesti nazionali produssero anche lo scontro civile che si materializzò durante la Seconda guerra mondiale. La lotta tra fascismo e antifascismo altro non è che la sublimazione politica e particolare di un discorso europeo generale, quello dell’assalto al cielo delle classi subalterne sulla scorta dell’esempio sovietico, che produsse un costante “regime di guerra” nei vari contesti nazionali. I tentativi rivoluzionari in Germania, in Ungheria, in Cecoslovacchia, così come la guerra civile spagnola, il biennio rosso in Italia, il Fronte Popolare in Francia, non fecero altro che spostare l’asse della politica a sinistra producendo un cedimento dei sistemi politici liberali tradizionali. Un rischio sociale e politico che contribuì a generare quel terreno culturale su cui fecero leva i diversi regimi reazionari. Fascismo e nazismo altro non sarebbero che delle risposte politicamente degeneri di uno dei segni caratteristici della modernità, quello della partecipazione di massa alle vicende politiche di una nazione. Il tentativo di contenere questa partecipazione ingabbiandola in una costruzione nazionale autoritaria.

Ci sembra dunque che il caso particolare della guerra civile italiana sia da legare ad un contesto e ad un clima politico generale che ne determinò le circostanze. Non una semplice guerra civile allora, ma un movimento storico di emancipazione sociale che trovò nei vari contesti le sue ricadute politiche. Discorso questo sempre più espunto dal racconto politico attuale di quelle vicende, e che però emerge con forza dalle pagine di questo libro che potrebbe assumere oggi il valore di punto fermo nella ricerca storiografica, quantomeno sul terreno della divulgazione scientifica capace di rompere il muro dell’accademismo. Un’opera, questa, destinata a superare la sua origine commemorativa. Augurandoci che l’esempio di questi due intellettuali venga raccolto da una nuova generazione di storici capaci di indagare quegli angoli ancora poco illuminati che ancora compongono il grande quadro della Resistenza al nazi-fascismo.