Nelle tradizioni culturali sono spesso i temi più pervasivi quelli considerati come assenti. Fra questi spicca la mimesis della quale avremmo soltanto alcune affermazioni nella Poetica di Aristotele e poi, con un salto di secoli, poche altre di Spinoza. E a parte le opere di Girard e le più recenti considerazioni di scienziati come Meltzoff, Oostenbroek, Gallese e qualche altro riconducibile al gruppo di Rizzolatti e alla scoperta dei neuroni specchio, non ci sarebbe molto altro.
Così sostiene Gianfranco Mormino in Per una teoria dell’imitazione (Raffaello Cortina, pp. 95, euro 10), sorvolando su tutte le teorie dell’arte e le poetiche (l’utile dulci di Orazio) che si sono formate sul principio dell’imitazione per secoli, prima e oltre l’umanesimo e il rinascimento, influenzando non solo l’idea di arte e poesia, ma informando la teoria politica, la pedagogia (anche quella religiosa: si pensi all’Imitatio Christi), per non parlare delle pratiche per l’addestramento animale.
Ma per Mormino l’arte, l’estetica, l’antropologia culturale, la psicologia non sono sufficientemente scientifiche neanche per valere, se non altro, come attestazione del fatto che la mimesis non è mai scomparsa dalla scienza, dalla cultura e persino dalla politica ben oltre l’epoca antica come si evince, ad esempio, dal Principe e dai Discorsi di Machiavelli.
Che cosa non va a Mormino riguardo le posizioni che anche autori più vicini a noi hanno elaborato riguardo l’imitazione? Non va quello che sembra uno dei tratti più evidenti di essa. E cioè la sua dimensione sovra-individuale, collettiva. Cioè che imitazione sia imitare un altro all’esterno. Per Mormino è proprio questa proiezione nel fuori dell’imitare l’elemento da riconsiderare in quanto metafisico e finalistico, non scientifico, non sufficientemente meccanico.
Chi o cosa imitiamo allora per Mormino? La riposta è che noi imitiamo sempre noi stessi anche quando ci sembra che riproduciamo gli altri. Per dare ragione di come questa «autoimitazione» sia biologicamente più originaria rispetto alla semplice mimesis anche Mormino deve ricorrere a una favola, come in genere avviene nei tentativi di spiegare l’antropogenesi.
Mormino racconta di un individuo spinto a muoversi dal dolore e che sbattendo qua e là nell’ambiente si quieta, si «stabilizza» ogni volta che trova una situazione conveniente in termini di sopravvivenza, utilità, piacere.
Questo trovare la situazione temporaneamente stabile creerebbe il precedente da ripetere, il primo tassello per l’imitazione di sé. Urtando qua e là nello spazio, il sé chiuso nel corpo avrebbe poi modo di far risuonare in se stesso gli altri – come lui vaganti – per appropriarsi delle stabilizzazioni che questi hanno trovato e trarne vantaggio.
L’incorrere casuale nella traiettoria altrui e osservarne che le sue azioni sono uguali alle proprie sarebbe la seconda fase che permetterebbe di incorporare ciò che fanno gli altri nell’«autoimitazione».
Più che una nuova teoria dell’imitazione, la tesi di Mormino sembra avere a cuore un altro obiettivo. Quello di neutralizzare la dimensione sociale e politica della mimesis negli animali umani e non umani per salvaguardare l’individualità come unico principio vitale.