Vi sono almeno due modi per spiegare la diffusione e il radicamento della corruzione politico-amministrativa, e il suo duplice intreccio con il mondo dell’impresa e con organizzazioni criminali (spesso di stampo mafioso), come emersi nell’ultimo anno dalla micidiale sequenza dei casi Expo di Milano, MoSE di Venezia e Mafia Capitale. Il primo rinvia all’eccezionalità del caso italiano, alla longue durée della storia patria, tra «familismo amorale» e arretratezza dello sviluppo. Il secondo allarga lo sguardo alla dimensione globale e cerca di collegare il fenomeno alle trasformazioni produttive e sociali del capitalismo contemporaneo e ai loro effetti nella sfera istituzionale.
A offrire un insperato contributo a questo secondo approccio sono Giorgio Barbieri (brillante giornalista del gruppo L’Espresso) e Francesco Giavazzi (proprio lui, l’economista ultra-liberista) nel loro Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, pubblicato quest’estate da Rizzoli. A dispetto del titolo, il volume è prevalentemente dedicato alla puntuale ricostruzione della vicenda MoSE, ovvero del sistema legato alla realizzazione del progetto di dighe mobili per la regolazione delle maree e alle attività del Consorzio Venezia Nuova.

Non vi troverete il dettagliato resoconto dell’inchiesta giudiziaria che ha portato nel giugno scorso a decine di arresti «eccellenti», di cui si sono invece occupati con un’agghiacciante ricchezza di particolari, spesso inediti, tre appassionati cronisti de il Gazzettino, Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese, nel recentissimo Mose. La retata storica (in uscita per Nuova Dimensione). Bensì la genealogia di un caso paradigmatico.

Barbieri e Giavazzi, dopo aver dopo aver distinto tra corruzione «per infrazione delle regole» e «corruzione delle regole», concludono che nel caso del sistema MoSE quella che emerge sia la seconda: «Alla radice dello spreco di denaro pubblico c’è la corruzione delle regole, cioè quelle leggi che hanno concesso a un piccolo numero d’imprese il monopolio dei lavori».

È stato infatti nel 1984 il parlamento, con l’approvazione della seconda Legge Speciale, a consegnare al Consorzio Venezia Nuova (Cvn), individuato come «concessionario unico dello Stato» senza alcuna trasparente procedura d’appalto, l’esclusiva su studi e ricerche, progettazione ed esecuzione, gestione e manutenzione di tutte le opere per la salvaguardia fisica della città e della laguna. E il Cvn è un pool d’imprese private che comprende i colossi nazionali del settore costruzioni. Avrebbe dovuto, in teoria, essere diretto dal braccio operativo in Laguna del ministero per le Infrastrutture, cioè dal Magistrato alle Acque, ma non a caso proprio i presidenti di questo organismo erano per primi «a libro paga» del Consorzio.

In tal modo, il Cvn ha gestito nell’ultimo trentennio circa 9 miliardi di euro (di cui quasi 6 per il solo progetto delle dighe) di risorse pubbliche, una montagna di soldi prevelati dalla fiscalità generale. Ed è stato calcolato che almeno metà di questi fondi siano stati messi a disposizione del «sistema», ovvero finalizzati con mezzi leciti e illeciti alla costruzione del consenso, alla velocizzazione delle procedure a monte e all’elusione delle verifiche a valle, per un’opera mai sottoposta a seria valutazione ambientale e a un’effettiva comparazione con le possibili alternative.

L’osservazione di Barbieri e Giavazzi sulla «corruzione delle regole» è del resto indicativa di un processo di costituzionalizzazione della corruzione, che ha investito la struttura del diritto di gran parte del mondo globalizzato. Negli Stati Uniti, alcune sentenze della Corte Suprema (ricordate da Guido Rossi in diversi interventi sul Sole 24 Ore) hanno definitivamente tolto ogni limite ai finanziamenti, diretti o indiretti, destinati alla politica dalle corporation, consegnando loro un enorme potere di condizionamento. Non a caso, in Italia, il sistema MoSE è stato il modello su cui si è successivamente plasmata la figura del «general contractor», protagonista in tutti i cantieri delle grandi opere infrastrutturali, a partire dall’Alta Velocità ferroviaria. Ed è stato questo anche l’utilizzo che si è fatto del «project financing», divenuto strumento principe per scaricare sulla finanza pubblica il rischio d’impresa.

Il problema penale che si era manifestato con Tangentopoli viene affrontato alla radice: «Tutto diventa legittimo – affermano – perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale. Sono anche scritte per massimizzare la rendita nell’interesse sia dei politici sia delle imprese che se la divideranno».
La figura del «concessionario unico» corrisponde a un modello estrattivo, affrancato da qualsiasi riferimento storico di tipo coloniale, svincolato da qualsiasi chiacchiera ideologica sulle «virtù del libero mercato» e pienamente adeguato ad alimentare i flussi finanziari contemporanei, in quanto originati da una rendita capitalistica parassitaria. Sono tutte da leggere le pagine dei nostri autori sui rapporti tra Cvn e sistema bancario. La corruzione si rivela così non la patologia, ma la fisiologia di un modello.
Ne derivano diverse conseguenze. Tra queste, in primo luogo, il grado di penetrazione e pervasività del sistema corruttivo, che le stesse inchieste giudiziarie sono costrette con sgomento a registrare. Non solo nello scambio reciproco tra ceto politico e imprese, ma nella diretta cooptazione di organi di sorveglianza, apparati repressivi e della stessa giustizia amministrativa e contabile.

Nella crisi delle tradizionali forme della sovranità, l’intreccio tra tecno-burocrati, politici e imprenditori (anche quelli più esplicitamente «criminali», come nel caso romano) genera l’adesione e il senso di appartenenza a un’unica oligarchia appropriativa. In secondo luogo, dalla vicenda MoSE fino alle norme della Legge Obiettivo e del decreto «Sblocca-Italia», si produce una sistematica sottrazione delle decisioni in materia di grandi opere alla sovranità della comunità locale e delle sue istituzioni democraticamente elette. Qui, complice la gestione capitalistica della crisi su scala europea e l’applicazione feroce del Patto di Stabilità, va registrato un processo di ricentralizzazione e riverticalizzazione istituzionale, che ha avuto l’effetto di ridurre gli spazi di effettivo autogoverno su scala locale, a esclusivo beneficio della logica di appropriazione estrattiva ai danni di beni comuni e territori.

In questo quadro, le soluzioni normative offerte da Barbieri e Giavazzi in conclusione del loro volume, appaiono deboli e inadeguate a incidere sul carattere strutturale della corruzione. Ma qui vale la lezione dei classici, a partire dalle pagine dei Discorsi di Machiavelli. Quando la corruzione, intesa in senso eminentemente politico come crisi della relazione tra istituzioni e dinamiche sociali, appare oggi come una delle forme più intollerabili di diseguaglianza, nell’appropriazione oligarchica della ricchezza comune, «buone leggi» non bastano più. È tempo che la «virtù» dei molti rovesci la «fortuna» dei pochi. E che la produzione comune esprima un progetto e una forza capaci di fondare «nuovi ordini».
*Una più approfondita versione di questo articolo è pubblicata dal sito www.euronomade.info