D’abitudine il nome della località di Caporetto, oggi piccolo centro comunale sloveno di poco più di un migliaio di abitanti, è indicato come sinonimo di catastrofe. Più propriamente costituisce la dodicesima battaglia dell’Isonzo, avviatasi nella notte del 24 ottobre 1917 e conclusasi, nel giro di una ventina di giorni, dopo una drammatica rotta delle due armate italiane che vi erano coinvolte, con l’attestamento sulla linea del fiume Piave. Angelo Gatti, colonnello del regio esercito, aveva ricevuto in quei mesi l’incarico di redigere la cronistoria degli eventi per conto del comando supremo. I sui diari di guerra, ora ristampati con il titolo Caporetto (il Mulino, pp. 384, euro 15), insieme al materiale che l’autore andò raccogliendo tra il 1920 e il 1927, divennero ben presto una preziosa fonte per lo storico. Non si tratta di documentazione di natura ufficiale ma delle considerazioni personali dell’autore. Supportate, tuttavia, dalla diretta conoscenza delle questioni che andava trattando. Gatti, nella veste che gli era stata conferita, fruiva di una posizione oggettivamente privilegiata, avendo accesso a fonti altrimenti irraggiungibili. Godeva peraltro della piena fiducia di Luigi Cadorna, che dell’esercito italiano ne era il capo di stato maggiore. Il diario di Gatti rimane a tutt’oggi una preziosa testimonianza delle responsabilità che portarono non solo alla débâcle dell’autunno del 1917 ma, più in generale, ad una condizione diffusa di crisi dell’esercito, destinata a segnarne, nei tempi successivi, le dinamiche interne non meno che il suo rapporto con il Paese.

La leggenda del tradimento

Quattro sono gli avvenimenti maggiori da Gatti commentati: la decima battaglia dell’Isonzo (maggio), quella dell’Ortigara (giugno), la conquista della Bainsizza (agosto) e la stessa Caporetto (ottobre-novembre). La storiografia sulla Grande guerra ha conosciuto diverse stagioni, in sintonia con gli umori politici prevalenti. Dall’apologia della partecipazione al conflitto all’approccio prima critico, poi polemico se non demolitorio, fino ad una parziale rivalutazione del contributo italiano. Non a caso, infatti, il volume di Gatti conobbe per un certo tempo vita difficile: su richiesta di uno dei citati, fu sequestrato, mentre l’autore e l’editore vennero sottoposti a un processo per diffamazione.
La questione «forte» ruotava intorno alle fucilazioni per decimazione, una sorta di collo d’imbuto sul quale misurare l’iniquità dei vertici militari. Peraltro nel 1968, cadendo il cinquantenario, misurò definitivamente il mutamento di sensibilità storiografica in atto, volgendo l’attenzione verso i combattenti, la figura del soldato-massa, del fante contadino, della «guerra dei poveri» di contro alle vicende più propriamente legate alla storia militare e a quella dei comandi. In questa congerie di interpretazioni Caporetto uscì quindi dal cono d’ombra dell’inesplicabilità (basata sulla mitografia del presunto tradimento dei soldati, arresisi senza combattere al nemico, quella che Piero Pieri chiamava tout court «leggenda») per assumere invece una diversa sostanza, rivelando l’intelaiatura della conduzione della guerra da parte italiana. In tale ambito spiccavano l’incongruità operativa dei comandi non meno che la frattura tra comandanti e comandati. Anche a partire da ciò Caporetto consolidò la sua natura di evento storico periodizzante, tanto repentino nei suoi effetti quanto cumulativo nelle sue premesse.

Dalla sorpresa allo sconcerto

La storiografia odierna concorda sul giudizio relativo alla responsabilità militare nel rovinoso svolgersi degli eventi. Il 24 ottobre 1917 l’esercito subì un violento rovescio, causato dall’offensiva austro-ungarica e tedesca, esercitata, non a caso, su uno dei punti più deboli dello schieramento italiano. Di fatto la mossa avversaria fu giocata sul piano dell’innovatività strategica, basata su una tecnica di assalto nuova, in grado, nel giro di non più di due giorni, di travolgere il fronte tra l’Isonzo e il Carso. La sorpresa, trasformatasi quasi subito in sconcerto, fu pressoché totale ma contò ancora di più la fragilità dello schieramento italiano, non solo dal punto di vista logistico, operativo e gestionale ma anche e soprattutto motivazionale.
Il 1917 fu peraltro un anno denso di tensioni, dagli scioperi torinesi «per il pane», che ebbero un forte impatto, fino alla due rivoluzioni russe. Gatti riflette sugli umori dei vertici ma anche e soprattutto sui sentimenti, gli atteggiamenti e i pensieri dei soldati. Lo fa, in questo secondo caso, con i filtri propri ad un militare di professione. Tuttavia, indossando anche una seconda veste, quella di letterato – fatto che peraltro ne aveva decretato le fortune presso lo stesso comando generale, contando Cadorna di farne il suo storico ufficiale -, riusciva a immedesimarsi nella dimensione collettiva che accompagnava l’azione delle truppe. Peraltro l’autore, pur essendo stato a favore della partecipazione al conflitto, non nutriva posizioni di oltranzismo interventista. Semmai il suo atteggiamento tiepido lo rendeva ben più equilibrato di altri suoi contemporanei. Su Cadorna, verso il quale nutriva un atteggiamento di rispetto e stima, Gatti non risparmia tuttavia dure valutazioni critiche.

L’anno della svolta

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Le pagine del diario sono attraversate dalla percezione, più volte espressa indirettamente, che il 1917 costituisse un anno nel quale il mutamento di scenario avrebbe tracciato, da allora in poi, un diverso indirizzo alla guerra. Chiamando in causa tutti i combattenti non più solo come parte di un qualche esercito ma nella loro natura di forza d’urto, potenzialmente avversa ai propri stessi comandanti. In una guerra che invece procedeva seguendo e assecondando una sua inerzialità, a conti fatti sempre meno sostenibile. Di questa falsa inesorabilità è immediato riflesso l’ottuso atteggiamento di Cadorna, che continua ossessivamente a predicare e a far praticare gli attacchi frontali, nella convinzione, in se stessa del tutto infondata, che fosse ancora questo il modo per risollevate le sorti belliche dell’Italia. Da qui, ad esempio, l’indisponibilità di riserve, la farraginosità nelle comunicazioni tra comando generale e grandi reparti, l’incapacità di indurre i medesimi a quell’autocorrezione operativa che costituiva un virtù, e non un tradimento, durante le grandi battaglie.
Tra i protagonisti al comando emerge comunque il prevalente scetticismo nei confronti di una soluzione militare, e quindi armata, al conflitto. La consapevolezza comune, e come tale sempre omessa dinanzi alla collettività, era che la guerra da sola non solo non sarebbe finita ma, soprattutto, non avrebbe portato a risultati chiari e soddisfacenti. Di fatto questa cognizione, se da un lato rivelava il realismo fatalistico dei comandi italiani (come di quelli degli altri eserciti in guerra), dall’altro era indice di una contaminazione quale mai si era verificata, almeno fino ad allora, tra decisione militare e funzione politica. Se alla seconda sarebbe toccato l’onere dell’indirizzo e alla prima la scelta dei modi e dei criteri con il quale tradurlo in atti concreti, nei fatti i ruoli si erano abbondantemente accavallati. Non era una prerogativa del solo fronte italiano. Era semmai un indirizzo, una piegatura che la Grande guerra, nella sua peculiarità di fenomeno di massa, aveva fortemente avallato.

Un comando ostile ai soldati

L’incubo di Cadorna per il possibile «tradimento» dei suoi subalterni, e soprattutto delle truppe, che precede di molto la disfatta di Caporetto, era così qualcosa di più della cifra di una concezione personalistica della conduzione delle operazioni, nonché di un rapporto ai limiti del patologico con i subordinati, rivelando semmai le difficoltà che una parte delle classi dirigenti, in divisa e non, intrattenevano con la gestione di un esercito di massa. Una forza armata composta di coscritti che, a conti fatti, se non era l’«esercito di popolo» celebrato dalla retorica risorgimentale, tuttavia costituiva un vero e proprio universo di plebi ora abituate al ricorso sistematico alla forza. Cosa fare con esse (e di esse) diveniva quindi esso stesso un problema di ordine politico, essendosi innescato nel 1914-1915 un processo di militarizzazione del corpo della nazione che mese dopo mese, in assenza di risultati significati e dinanzi ad uno stallo generalizzato delle linee del fronte, avrebbe forse potuto ingenerare cedimenti strutturali nella fedeltà tra governanti e governati.
La vicenda russa stava lì a dimostrarlo. Non di meno, la maggiore pervasività della propaganda pacifista su tutti i fronti, basata ora non più su opzioni ideologiche ma sulla sollecitazione del rifiuto a combattere in base alla stanchezza e al bisogno di tornare a casa, se mai riuscirà a costituire il fattore differenziale decisivo nelle condotte dell’esercito italiano, e nelle sue concrete capacità di azione, tuttavia in quell’anno conobbe una forza, e dei riscontri, che le erano mancati. C’è quindi il piano militare, in sé inclinato, dove le offensive e le controffensive non spostano di un centimetro le sorti della guerra ma causano decine di migliaia di morti in un colpo solo, e quello politico, per il quale non è più il caso di parlare di uno stallo bensì della sotterranea evoluzione dei rapporti di forza, segnati adesso da una stanchezza generale che può trasformarsi in potenziale deflagrazione.
L’esercito italiano non conoscerà la prima, rivolgendo i fucili contro «coloro che stanno alle nostre spalle» (come predicava una parte dei socialisti) o abbandonandoli definitivamente ai bordi delle trincee, bensì l’implosione di cui Caporetto fu la manifestazione più eclatante.

Il malgoverno degli uomini

La crisi di stanchezza, che si fa poi in più casi rifiuto e renitenza al servizio, era peraltro in atto, nel nostro esercito, già dalla primavera del 1917. Non derivava tanto dalla pervasività dell’opzione pacifista, in sé astratta e per più aspetti incongrua rispetto alle aspettative dei fanti, né dal fantasma del disfattismo che Cadorna denuncia invece come dilagante, bensì dall’esaurimento delle residue risorse motivazionali prima di tutto da parte di un’élite che non sapeva come uscire dall’impasse che aveva essa stessa generato. E dai riflessi che da ciò derivavano sull’esercito intero. Ad esprimere prima malumore, una sorta di sordo malcontento, poi dissociazione, fino alla dichiarata insubordinazione, sono soprattutto spesso combattenti di valore. Non è la sola fanteria di linea, quella sottoposta spesso a indiscriminate decimazioni sui campi di battaglia, ma anche i bersaglieri e gli alpini. Gli uni e gli altri denunciano in tale modo l’insensatezza umana e materiale del conflitto. Non la sua intollerabilità bensì la mancanza di un obiettivo che non fosse il solo proseguirlo.
L’insipienza, la sciatteria e la disorganizzazione dei comandi italiani si fa in questi casi evidente, divenendo essa stessa causa dei successivi cedimenti. Si parlerà, a posteriori degli stessi fatti di Caporetto, di deliberato «malgoverno degli uomini». Angelo Gatti ne dà abbondante riscontro. Facendo peraltro giustizia non solo delle letture celebrative, di cui il fascismo ma anche una certa retorica repubblicana si sono nutrite, ma anche di una visione «ingenua» della guerra che, nel tentativo di capire le ragioni delle classi subalterne, rischia di volere ancora oggi attribuire ad esse una volontà rivoluzionaria che era invece completamente assente. Laddove tutto fu subito, poco fu compreso come, non di meno, nulla fu voluto fino in fondo che non fosse il semplice tornare a casa.