In Italia dove si parla di lavoro c’è una protesta di precari, giovani, attivisti. Ieri è successo all’Istat e al Cnel. La sala stampa dell’istituto nazionale di statistica in via Cesare Balbo a Roma, lì dove vengono periodicamente organizzati briefing con i giornalisti, è stata occupata da ricercatori, tecnologi e collaboratori, in rappresentanza dei 372 assunti con un concorso, ma precari fino in fondo. Lo fanno dal 22 settembre scorso, contestano il piano di fabbisogno 2014-2016 e l’accordo decentrato per le proroghe dei contratti a termine: «Sono gravemente inefficaci, se non addirittura ostativi per l’obiettivo della stabilizzazione» dicono. Da allora l’Istat diffonde i dati via mail.

L’occupazione della sala stampa dell’Istat è uno degli effetti della precarietà che si respira nel paese. Lo conferma i dati di agosto sulla disoccupazione. Quella generale era al 12,3% (meno 0,3% sulla congiuntura, ma più 0,1% nell’ultimo anno). Quella giovanile ha battuto un nuovo record: 44,2%. Una percentuale superiore al 40,8% conseguito dal Pd alle europee e strombazzato in ogni dove dal premier Renzi. Sono stati in molti ieri a ribadire in rete questa tesi sarcastica.

Tra i giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni, sul totale degli occupati o in cerca di lavoro, il record di ieri rappresenta un balzo dell’1% rispetto a luglio e del 3,6% nel confronto tendenziale. In totale i giovani disoccupati sono 710 mila. In un solo anno sono aumentati di 88 mila unità. È il dato più alto dal 1977, data di inizio delle serie storiche trimestrali dell’Istat. Nel frattempo tutti i rimedi adottati dal governo Letta e da quello Renzi si sono rivelati un buco nell’acqua.

La garanzia giovani, ad esempio. «Un’altra promessa alla quale, nella realtà, non ha corrisposto nulla. A fronte di 200 mila iscrizioni, le Regioni sono ancora ferme. Di più, si usano risorse pubbliche non per estendere le tutele, ma per favorire imprese ed enti formativi, trasformando la disoccupazione giovanile in un vero e proprio business, fatto di stage, tirocini, ancora una volta, di lavoro sotto-pagato o gratuito».

La critica è stata avanzata ieri mattina al Cnel a Roma da cinquanta attivisti del «Laboratorio per lo sciopero sociale» previsto per venerdì 14 novembre. I precari hanno interrotto la presentazione del rapporto annuale sul mercato del lavoro italiano tra il 2013 e il 2014. E hanno preso la parola contro la regola d’oro delle politiche neoliberiste: una maggiore libertà di licenziamento che favorisce l’«occupabilità» del lavoratore. Un dato smentito dai fatti, nel paese che ha il mercato del lavoro più flessibile d’Europa. «Semplicemente, tutti avranno meno tutele» sostengono gli attivisti. Per loro i due miliardi di euro con i quali il governo dice di volere finanziare l’estensione dell’Aspi ai co.co.pro «sono briciole». Occorre invece una riforma universale delle tutele, e l’introduzione del reddito di base. «Per realizzarlo ci vogliono 15-20 miliardi di euro per dare una garanzia reale a tutti».

Il governo è orientato su tutt’altro, pressato dall’aut-aut della Bce sulle «riforme strutturali» del lavoro. Criticata anche la riforma Poletti sui contratti a termine, un provvedimento approvato senza troppe urla nella maggioranza e nel Pd e che oggi sembra del tutto rimossa. Per i precari dello sciopero sociale è stato invece un altro capitolo di una precarizzazione selvaggia che prosegue da vent’anni. «Poletti ha esteso smisuratamente l’acausalità dei contratti a termine e ha cancellato il contenuto formativo dei contratti di apprendistato. L’obiettivo è chiaro: renderci ricattabili; pagare meno il lavoro».

Anche il rapporto annuale del Cnel ha restituito uno scenario drammatico. Nei primi sette anni di crisi l’Italia ha perso 1 milione di posti di lavoro, 600 mila nelle regioni meridionali, poco più di 400 mila nel resto del paese. I settori più colpiti: l’edilizia e l’industria. «È la crisi più pesante dal Dopoguerra – si legge nel rapporto – le famiglie hanno modificato strutturalmente i propri comportamenti di consumo». È crollato il potere d’acquisto dei salari del 6,7% tra il 2009 e il 2013, mentre si è affermata la nuova figura sociale del lavoratore povero (il «working poor»): «I gruppi che tradizionalmente ne erano esenti, lavoratori autonomi con dipendenti e i più istruiti, sono stati investiti dal generale impoverimento». Le più esposte sono le famiglie dove il lavoratore a bassa remunerazione è il principale o l’unico percettore di reddito». È il ritratto di una stagnazione fatale dove il Pil si avvia ad una crescita negativa per il terzo anno consecutivo. Per l’Istat l’intervallo di confidenza è compreso tra +0,2% e -0,2% per il 2014.

Per tornare ai livelli della disoccupazione pre-crisi (il 7%) bisogna creare 2 milioni di posti di lavoro entro il 2020. «Una prospettiva irrealizzabile» sostengono gli esperti. Il Cnel ragiona su uno scenario intermedio con un tasso di disoccupazione al 10%. In questo caso servirebbero 1,2 milioni di posti di lavoro aggiuntivi e una crescita dell’occupazione dello 0,7%.Prospettiva quanto meno remota. L’occupazione non tornerà indietro. Quel milione di posti di lavoro è bruciato per sempre.