Nel 1989 uscì Fear of Falling – The Inner Life of the Middle Class di Barbara Ehrenreich, ben nota ai lettori del manifesto. L’autrice era già apprezzata ma non ancora celebre come divenne dopo Una paga da fame, il libro del 2001 in cui raccontava le sue esperienze come cameriera, donna delle pulizie e commessa in un’indagine sul lavoro negli Stati Uniti. Con molti anni di anticipo rispetto ai dibattiti stimolati da Thomas Piketty e dal movimento Occupy Wall Street, Fear of Falling individuava già il problema chiave dell’America post-reganiana: la concentrazione della ricchezza, mai così estrema (nei 25 anni successivi, ovviamente, la disuguaglianza sarebbe ulteriormente aumentata, e di molto). Ehrenreich aveva notato assai prima di economisti e sociologi che le classi a reddito medio si erano ristrette fra il 1973 e il 1984: qualcuno era salito ma la maggior parte erano scesi nella scala sociale, senza la certezza di poter continuare a godere del tenore di vita cui erano abituati. La precarietà, che sembrava una sorte riservata alle classi lavoratrici, ridiventava un pericolo concreto: di qui la «paura di cadere» evocata nel titolo.

Maestri di risparmio

Arriva quindi a puntino il nuovo libro di Franco Moretti, The Bourgeois. Between History and Literature (Verso) che nella letteratura della classe media rintraccia un filo rosso che risale al Settecento: l’ossessione del lavoro (Robinson Crusoe) insieme alla paura di perdere ciò che si ha, di regredire, di perdere lo status faticosamente conquistato. Una famosa pagina de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe celebra la partita doppia, «una delle più meravigliose invenzioni della mente umana» perché «ordine e chiarezza aumentano il desiderio di risparmiare e di ottenere». Solo il culto del lavoro, del risparmio, dell’ordine possono attenuare la paura di ricadere in basso nella scala sociale.

Moretti prende in esame la scena di Mastro don Gesualdo in cui il protagonista rischia la vita per spostare una macina che i suoi operai non osavano toccare. Scrive Verga: «Datemi la stanga!… Io non ho paura!… Intanto che stiamo a chiacchierare il tempo passa! La giornata corre lo stesso, eh?… Come se li avessi rubati i miei denari!… Su! da quella parte!… Non badate a me che ho la pelle dura… Via!… su!… Viva Gesù!… Viva Maria!… un altro po’!… Badate! badate!…». Una scena sorprendentemente simile come spirito compare nei Miserabili, quando Jean Valjean, diventato imprenditore e sindaco sotto falso nome, si getta sotto un carretto sprofondato nel fango per salvare il conducente, rivelando all’ispettore Javert le sue origini proletarie.

Moretti rileva giustamente che in questo passo Gesualdo usa il linguaggio dei suoi operai, in un certo senso tornando alla condizione di quando faceva il muratore e si chiede quale sia il motivo di una scena di «brutalità quasi mitica». Perché chi ha lavorato per decenni con il solo scopo di sfuggire alla maledizione del lavoro manuale, come Gesualdo, rischia addirittura la vita in un’azione che avrebbe potuto affidare ad altri?

La spiegazione di Moretti è che il neoborghese «è terrorizzato che la sua ricchezza possa svanire: una paura che è sempre con lui», anche nei momenti di riposo. Non ci sono, in realtà, momenti di riposo per chi ha scelto gli affari: «Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; con la testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava (…). Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro».
La roba in Verga è un padrone tirannico, che non si accontenta dei muscoli e del cervello: dai suoi schiavi esige anche l’anima e la esige qui, ora, adesso, non domani quando si sarà abbandonata questa valle di lacrime.

Il rifiuto delle responsabilità

Moretti dedica molto spazio proprio alla Inner Life della classe media, a partire dall’osservazione che i borghesi preferiscono definirsi «classe media» come se chi non fa un lavoro manuale, ma neppure appartiene all’aristocrazia, dovesse vergognarsi di definirsi un borghese.
Un’osservazione che risale allo studio di Bernard Groethuysen sulle origini dello spirito borghese in Francia, citato da Moretti, e che ha a che fare con il «rifiuto di assumersi responsabilità» per la condizione complessiva della società. La vita dei personaggi della letteratura ottocentesca è caratterizzata dall’ansia, dall’incertezza, dagli esorcismi che dovrebbero tenere lontana la fine. Il borghese teme sempre di essere ridicolo (un’arma che l’aristocrazia usa con efficacia devastante contto i parvenus). Il borghese è perennemente insicuro, anche quando non ne avrebbe motivo, quindi può facilmente diventare feroce quando si sente in pericolo.

Chiarezza di visione

«Visionario, dispotico, distruttivo, autodistruttivo: questo è l’imprenditore in Ibsen» scrive Moretti citando in particolare John Gabriel Borkman, una pièce in cui il banchiere protagonista rinuncia all’amore per la ricchezza, finisce in prigione, si chiude in casa per otto anni e infine si suicida camminando su un lago gelato. È curioso che un grande scienziato sociale come Max Weber attribuisse all’impreditore non solo «chiarezza di visione» ma anche la necessità di «ben definite e altamente sviluppate qualità etiche», necessarie –secondo Weber- per mantenere la fiducia di consumatori e dipendenti.

In realtà quando la borghesia diventa la classe dominante è la «distruzione creativa» a diventare la caratteristica fondamentale del comportamento anche del suo singolo membro: l’etica viene accantonata assieme alla prudenza, al realismo, all’onestà. Non sempre e non da parte di tutti ovviamente: la borghesia porta nel mondo, scrive Moretti, «la folle alternativa tra un governo della società molto più razionale e uno molto più irrazionale». Il capitalismo non può fermarsi, non può accettare limiti alla sua espansione, non può accontentarsi di ciò che ha già: deve incorporare sempre nuove terre, nuove attività, nuovi desideri. La borghesia «ha dimostrato cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate…» (scusate, questo l’avevano già scritto Marx ed Engels nel 1848).