La cosa che ho fatto di più è guardare. Ma non guardare, come sarebbe stato ovvio, immagini impressionate su pellicola (oramai su supporto digitale) per far sognare un pubblico, piuttosto quello stesso eventuale pubblico che marciava in ogni direzione per ogni viale, rue, vicolo nascosto di questa cittadina deliziosamente di facciata, come una bellissima torta fatta di cartone su cui è posato, per vezzo, uno strato di pasta di zucchero colorata. Ho spulciato le fanciulle, le tardone, le modelle, le escort, i nuovi uomini dalle sopracciglia disegnate dall’estetista, gli hipster con la barba lunga e curata, gli shabby-freak con i capelli lunghi legati in alto in una crocchia disinvolta: tutti belli, tutti originali, tutti unici a loro modo.

Dallo chic al trash, passando per il kitsch, la volgarità assoluta, l’esibizionismo, la rivalsa sociale. Questa ricerca assoluta di essere diversi dagli altri mi ha impressionato, contagiato, alla fine angosciato, trasmettendomi un enorme senso di solitudine. Non dimenticherò: la corsa in tondo della jeep nei paesaggi lunari di montagna su sottofondo musicale di una Sweet dreams versione balcanica. I carrelli lentissimi su campi di canna da zucchero, vuoti labirinti pieni di dramma muto, di morte (La tierra y la sombra). La bella Sherazade che si bacia col biondo fecondatore di centinaia di bambini e poi lo delude dicendogli che è solo bello ma scemo e che lei non desidererà mai riprodursi con lui (As mil e uma noites – volume 3, o encantado). La limpida Jashaun che con le mani tinte di celeste imprime i palmi sul muro della sua camera a ritmo di rock, per non farsi toccare dal lamento funebre intonato dalla madre alcolizzata nella stanza accanto (Songs my brothers taught me). Quando a Krisha cade dalle mani a ralenti il tacchino del ringraziamento spappolandosi al suolo dopo ore e ore di cottura lasciando tutta la famiglia, che la stima una disadattata, a bocca asciutta (Krisha). La moltitudine di neri proveniente da tutta l’Africa che, in fila come formichine obbedienti, sale nel buio unico del deserto la duna arida algerina alla volta di un viaggio verso un mondo nuovo: brutto, difficile e affatto accogliente (Mediterranea). Quando Fatima, caduta dalle scale, a riposo forzato, in pausa dai suoi lavori come donna delle pulizie, scrive finalmente i suoi pensieri in arabo su un quaderno, perché il francese è ancora una lingua non amica (Fatima).

Catherine Deneuve abbracciata post coito all’enorme gorilla nero che la ama (Le tout nouveau testament). Quando John stringe le mani attorno alla gola di Malin, unica a ridargli fiducia, simulando l’atto omicida compiuto due anni prima sulla sua ex ragazza (Efterskalv).

Quando Adama e Mamadou, undici e nove anni, dividono in dosi da vendere per strada un panetto da dieci chili di hascisc (La vie en grand). La bevuta tra la bella bionda violoncellista depressa e la contadina lituana: l’iniziale conversazione intellettuale finisce a insulti pesanti (Peace to us in our dreams). Il piano sequenza iniziale su Mack, spacciatore di metanfetamine tossico all’ultimo stadio con una sua morale di vita, nudo nella selvatica foresta della Louisiana del nord (The other side).

La sigla della Quinzaine che si arricchiva quasi ogni giorno di fotogrammi nuovi come un quiz in costante evoluzione: il mio amato Dominic West travolto in una danza (Pride). L’immensità della natura, trait d’union, in moltissime pellicole, quasi tutte: natura originaria, liberatoria, asfissiante, agorafobica, meravigliosa, avviluppante, claustrofobica, misteriosa, agghiacciante, ferita aperta, soluzione finale, fraterna, annichilente, madre generosa o castrante. Quindi non sono triste di andarmene via… Au revoir, Madame Cannes, mannequin del fatuo, bisou à toi.

Fabianasargentini@alice.it