Offrire una panoramica globale di internet è un’impresa che ricorda la leggenda del bimbo che cercava di svuotare il mare con un piccolo secchiello, incontrato sulla spiaggia da S. Agostino. Lo stesso effetto paradossale e sfidante sembra uscire dalle pagine del ricco e complesso libro di Frédéric Martel, Smart, appena uscito in italiano per Feltrinelli.

Come fare per illustrare la geografia della rete limitandosi a strumenti cartografici analogici? Impresa ambiziosa: un’inchiesta qualitativa sullo stato della rete.
Il progetto è intelligente e temerario: la tesi è duplice. Da un lato si propone di argomentare in favore di un internet ormai con la «i» minuscola, geograficamente localizzata e linguisticamente orientata. Dall’altro intende sostenere che l’egemonia statunitense sulla rete sarebbe tramontata, o almeno ridimensionata. Le argomentazioni adottate per sostenere le sue posizioni possono talvolta apparire poco stringenti, soprattutto per quanto riguarda la seconda tesi.

Il libro ha molti pregi, è bene informato e piacevolmente discorsivo, ma lascia sullo sfondo alcune questioni importanti. Cosa pensano gli utenti della rete in giro per il mondo? Le persone comuni non hanno parola, non sono mai convocate per dirci se le loro condizioni di vita siano o meno migliorate da quando c’è internet.
È interessante seguire i passi dell’autore e ascoltare i suoi incontri in giro per il mondo, dalla Cina alla Russia, dal Medio Oriente all’Africa, passando per l’America Latina e (in verità poco) per l’Europa, senza mai dimenticare il centro di sviluppo della rete, la California. La scelta degli interlocutori è significativa: parlano imprenditori di internet o dei media tradizionali e i regolatori (soprattutto americani o con incarichi negli organismi internazionali, pur senza dimenticare russi, cinesi e africani). Anche quando – raramente – sono intervistati semplici programmatori o blogger dissidenti in Cina o in Medio Oriente, Martel lo fa sempre con lo sguardo puntato alla capacità di usare la rete come strumento di egemonia o controinformazione, dal lato dell’aristocrazia culturale, politica o economica.

La rappresentazione più convincente è quella che riguarda lo sviluppo della rete nei Paesi dove è più forte la dimensione accentratrice del potere. In Cina e in Russia esistono reti nazionali relativamente chiuse e potenti imprese internet (Baidu, Renren e Weibo in Cina, Yandex in Russia, etc ). I governi autoritari hanno realizzato sulla rete una forte egemonia nazionale, attraverso l’uso di potenti misure protezionistiche e discriminatorie nei confronti delle multinazionali internazionali. Anche il Medio Oriente e l’America Latina hanno progetti espansivi nazionali su internet che mostrano un potenziale di sviluppo alternativo. I paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) sono luoghi di sperimentazione e di innovazione sulla rete, ma ciò non è sufficiente almeno per ora, nemmeno nel racconto di Smart, a scalzare la centralità economica delle multinazionali con base negli Stati Uniti. Facebook, Google, Amazon, Ebay ecc. mantengono la supremazia tranne se si scontrano contro il protezionismo statale di Russia e Cina che, visto da questa prospettiva strategica e non da quella etica, pare uno strumento efficace per promuovere l’espansione delle imprese nazionali.

L’Africa – dove assistiamo a un notevole aumento di connessioni internet tramite la telefonia mobile – sembra essere un esempio dell’insuccesso della difesa delle specificità nazionali. L’autore condivide la tesi sostenuta da governanti e imprenditori africani intervistati che dare un telefonino a tutti nei ghetti africani o nelle favelas brasiliane o dovunque ci siano situazioni di grave indigenza possa costituire da sé un fattore di espansione, di empowerment e di uscita dalla povertà. Mancano, però, esempi convincenti al riguardo.

La maggior parte degli studi sul digital divide dimostra che senza intervenire sulle disuguaglianze sociali, economiche e culturali la distribuzione dei dispositivi tecnologici di per sé può anche contribuire a rafforzare e aumentare le disuguaglianze. Accedere a internet da un telefonino smart in un contesto in cui persino l’approvvigionamento elettrico è instabile e dove i tassi di analfabetismo sono elevati non può bastare a diminuire le ingiustizie sociali. Rischia invece di incrementare le frustrazioni delle persone che entrano in contatto con la tecnologia senza l’adeguata educazione al digitale.

Il libro è ricco di temi, è difficile indicarli tutti, ma ce ne sono due che meritano di essere menzionati: la governance della rete e il futuro del giornalismo culturale.
Il tema della governance mostra come il potere culturale e politico su internet risieda ancora ampiamente negli Stati Uniti, con buona pace dei propositi sull’internazionalizzazione dell’Icann che, per il momento, anche seguendo le recenti notizie di cronaca, è ancora saldamente in mano loro, nonostante gli impegni in senso contrario presi dal governo americano.

Sul tema del futuro del giornalismo culturale e sulla sopravvivenza della critica professionista, la posizione di Martel è ondivaga. Nessuno sa cosa succederà, ma è impossibile sostenere che gli algoritmi per i suggerimenti meccanici siano positivi e, insieme, che ci sarà posto per la critica da parte delle persone, sia pure in forme meno professionali. Soprattutto sul tema dei big data, usati come strumenti per prevedere le preferenze degli utenti, ci sono tante contraddizioni irrisolte, ignorate nel testo. Può un algoritmo inventato da programmatori e eseguito da macchine prevedere le nostre preferenze senza contribuire a costruirle? Una questione che avrebbe meritato maggiore riguardo.

La domanda finale che vorrei fare all’autore, ma anche ai lettori e alle lettrici di questo libro è: smart per chi? Per chi la rete sarà intelligente? Lo sarà per coloro che l’hanno trasformata in uno strumento di profitto? O per gli utenti che devono migliorare le condizioni di vita attraverso di essa?
Smart in inglese vuol dire anche furbo. Per adesso la furbizia sembra continui a premiare i forti, ma forse, speriamo, si tratta solo del primo tempo.