Quello che molti hanno definito «l’anno Pasolini», ovvero il quarantennale della sua morte violenta, si conclude proprio in questi giorni. E forse, dopo tanta dovizia di esternazioni e schieramenti al riguardo, è un bene. Alcuni hanno passato tutto il periodo della ricorrenza a ripetere il loro rifiuto per lo scrittore, e quindi per ogni tipo di «celebrazione». Ma la grande maggioranza ha tacitamente accettato una sorta di improvvida «beatificazione», adeguandosi a rimpiangere la sua mancanza, o al massimo attribuendogli una sorta di potere divinatorio, che gli aveva fatto vedere in anticipo gli orrori verso i quali ci stavamo dirigendo. Pochi hanno saputo cogliere l’originalità profonda del suo sguardo sul mondo, la sua impietosa assunzione di quanto lo circondava, trasformandolo in un linguaggio fantastico di poeta, di polemista e di creatore di immagini.

Anche in teatro si va a concludere la rappresentazione di quel «ricordo». All’India è tornato in scena (fino a domani) quel pudico oratorio laico e narrativo che Giovanna Marini ha elevato assieme al suo coro sui versi friulani del poeta, Sono Pasolini. All’Argentina invece ha da poco debuttato un più movimentato Ragazzi di vita (fino a domenica 20), che del primo romanzo dello scrittore prende il titolo, le vicende narrate, i personaggi, tentando di restituircene la cronaca e gli elementi quasi «anagrafici». La regia di Massimo Popolizio riorganizza il libro per la scena in capitoli diversi (non solo nei titoli) rispetto all’originale; e scatena i suoi diciotto giovani attori a entrare in quel mondo e in quella cornice. Ci riescono bene, per l’entusiasmo dell’interpretazione, non si risparmiano e ottengono i loro personali risultati. È bella la scena, di Marco Rossi, che sul palcoscenico vuoto fa muovere vampe di colore, parapetti sul Tevere e sull’Aniene, un bus della linea 44, la spiaggia di Ostia, osterie e un intera platea cinematografica.

Quello che stenta a sentirsi è lo sguardo dell’autore rispetto a quel mondo, denso come un formicaio, costretto eppure spensierato tra il dopoguerra e il boom. La diversità della sua osservazione è quella che gli fa inventare una lingua acida e violenta, «romanesca» senza essere un calco del dialetto, dove quelle che suonavano allora come parolacce in realtà conducevano a modalità di fede, di comportamento, di infelicità, e anche di carica positiva, impossibili da rintracciare dentro una piatta registrazione neorealista. I ragazzi di quella «vita» nuotano tre le contraddizioni, come nella marana o nel Tevere zozzo, ma la vera contraddizione, e la capacità del coglierla, sta tutta nell’occhio con cui il poeta guarda ai ragazzi, ai loro comportamenti e alle loro abitudini (e senza moralismi, come quello semiomofobo che appare in scena nell’episodio «er froscio»).

Nello spettacolo invece, la cui drammaturgia è di Emanuele Trevi, finisce per prevalere l’aspetto kolossal della rappresentazione, che conquista facilmente lo spettatore di oggi, compresi gli studenti che affollano la platea. Ma risulta in qualche modo sterilizzata nel profondo rispetto al vero scandalo pasoliniano, alla sua visione mai pacificata. Nonostante le canzoni d’epoca, i movimenti d’insieme, la circolarità del racconto che inizia col Riccetto che salva la rondine dalle acque, e si chiude con la sua indifferenza davanti all’amico annegato. Una doppia morale che lascia appeso anche il «narratore» Lino Guanciale, ora dentro ora fuori dai racconti.