«Scorrete, lacrime, o no?»: parla con le proprie lacrime, le invoca come compagne del dolore, il benedettino Walter Daniel nel Lamento per la morte del grande Aelredo, abate di Rievaulx, nello Yorkshire, composto nel 1167. Le sue emozioni prendono forma, divengono figura: dunque anche figura retorica. Il piccolo teatro delle emozioni che si intravede schiudendo una porta nell’intimità di un monaco del XII secolo ha una sua casta potenza espressiva, una forza di rappresentazione che attraversa i secoli.

Le lacrime conservano per un istante la trasparenza ineffabile della commozione, la cristallizzano senza parole. Ma si potrà, dopo il pianto, parlare delle lacrime? «Come la grazia, le lacrime sembrano sfuggire alla pesantezza, all’ombra: o meglio, ne rovesciano il movimento. Invitano l’uomo a incrociare il divino nel suo muoversi verso di lui», ha scritto, con parole che rimeditano Simone Weil, Jean-Loup Charvet, musicista, contro-tenore e storico dell’arte barocca nel bellissimo L’eloquenza delle lacrime (Medusa, 2001).

Il monaco Walter, nella Vita di Aelredo, mille anni fa ricordava orgoglioso che «all’abate capitò molto raramente di pregare senza lacrime. Le lacrime, diceva, sono come ambasciatrici (legaciones) tra Dio e l’uomo; le lacrime mostrano tutto il sentimento del cuore». Ciò che è «nascosto dentro» si rende «visibile» in queste goccioline di interiorità, in questo lieve rivolo che fluisce dall’anima. Nell’ininterrotta meditazione della civiltà monastica medioevale intorno alle emozioni e ai sentimenti «intimi» prendono forma e nome gli affectus della modernità. Li nominò per primo Agostino d’Ippona nelle Confessioni, mirabile viatico per il tempo nostro, senza cui faticheremmo a capire Bergson, Proust, la psicoanalisi.

Diceva Paul Valéry nel Dialogue de l’arbre che «le lacrime sono l’espressione della nostra impotenza ad esprimere, cioè a disfarci attraverso la parola dall’oppressione di quello che siamo». Aby Warburg, nell’età di Sigmund Freud, esplorò la traccia dinamica (Dynamogramm) delle emozioni depositate nell’opera d’arte e ne studiò la trascrizione mediante le Pathosformeln, «formule dell’emozione», idea che ispirò alcune idee importanti nelle ricerche di Ernst Robert Curtius sulla retorica, la topica, la metaforica nelle letterature europee fra Medio Evo ed età moderna. Su queste basi in Francia Georges Didi-Huberman e Giovanni Careri in La fabbrica degli affetti (2010) hanno illustrato la dimensione affettiva delle rappresentazioni estetiche; e muovendo dalla Carte du pays de Tendre che Madeleine de Scudéry incastonò nel suo romanzo-fiume Clélie (1654), Giuliana Bruno, nell’Atlante delle emozioni (tradotto da Bruno Mondadori nel 2006), ha recuperato l’intreccio fra corporeità, percezione dello spazio, architettura, cinema, in una vera e propria «geografia emozionale».
Anche l’etologia e le neuroscienze, riprendendo le esplorazioni inaugurali di Charles Darwin sull’espressione dei sentimenti negli animali, affrontano oggi la questione delle emozioni che fondano un’etica della compassione nei primati. E Bill Viola, in Passions, ha offerto una intensa rappresentazione artistica dei dinamogrammi passionali.

Da tempo anche i filologi si affacciano alla lettura dei testi lirici, ad esempio dei provenzali e degli stilnovisti italiani, per cogliervi il dinamogramma verbale di un lessico delle emozioni e di una topografia dell’interiorità. Un bel libro del 1988 curato da Francesco Bruni, Capitoli per una storia del cuore, ripercorreva una geografia e storia del cuore come organo del pensiero poetante; negli ultimi anni Roberto Antonelli ha coordinato una vasta ricerca sul lessico europeo dell’affettività e delle emozioni, che in collaborazione con Roberto Rea ha fatto confluire in un prezioso database; Mira Mocan ha inaugurato lo studio dei risvolti letterarî della teologia e psicologia degli affectus elaborate dalla Scuola agostiniana di San Vittore a Parigi, dimostrando quanto vasta sia la sua eredità spirituale, dai trovatori alla cultura francescana a Dante.

Le principali parole delle emozioni fra Medio Evo e modernità sono ora classificate e analizzate nel loro collegamento con le strutture storico-ideologiche in un notevole libro della storica di Cambridge Barbara H. Rosenwein, apparso quasi in contemporanea in originale e in traduzione italiana: Generazioni di sentimenti Una storia delle emozioni, 600-1700 (Viella, pp. 343, euro 34,00). «Che cosa deve cercare lo storico quando studia le emozioni di una comunità? Finché non si danno loro dei nomi le emozioni sono indefinite». Nella stessa prospettiva, in un saggio sul nome della Nostalgia, Jean Starobinski aveva già scritto: «Una volta che viene nominato, un sentimento non è più ciò che era prima dell’elaborazione che gli ha dato accesso alla lingua. Un neologismo condensa l’incompreso che era in precedenza rimasto diffuso. Diventa un concetto».

Anche le emozioni e i sentimenti, dunque, nascono, vengono battezzati, crescono e si trasformano. Barbara Rosenwein prova a ricostruire lungo il millennio della storia europea le «parole di emozioni» plasmate dalle «comunità emotive», «gruppi sociali che hanno i loro valori particolari, i loro modi di sentire e di esprimere i loro sentimenti»: «sono le parole, infatti, ciò con cui che gli studiosi devono lavorare», dal momento che «sono cruciali nella vita emotiva», e in qualche modo, come conchiglie fossili, conservano nel tempo il Dna dell’emotività individuale e collettiva, congelando in quelli che gli psicologi definiscono «copioni di un’emozione».
Mi torna alla mente il mito rabelaisiano delle paroles gelées che Pantagruel raccoglie mentre grandinano sulla sua nave, altissima parabola della letteratura che conserva la voce di chi non esiste più mentre la sua parola continua a vivere, congelata nel libro che la trasmette nel tempo e nello spazio, pronta a sciogliersi e a tornare viva quando l’orecchio di chi ascolta le restituirà calore. Così le parole, le formule retoriche, le strutture linguistico-ideologiche costituiscono secondo Rosenwein «le “eredità emotive” a disposizione delle generazioni di una stessa epoca e delle nuove generazioni che seguono. Le comunità emotive adattano le tradizioni alle proprie esigenze. A volte producono nuove parole e nuove sequenze sviluppandole da quelle passate». Questa tradizione emozionale, sterminata polifonia delle voci profonde di una civiltà, Rosenwein la definisce «generazioni di sentimenti: l’incessante disponibilità e potenziale di tradizioni emotive antiche e contemporanee».

Il millennio che la ricerca della Rosenwein attraversa componendo una «lista di emozioni» comuni ai monaci e ai nobili, ai mistici e ai filosofi, agli scrittori e ai sovrani, unisce e separa lungo un filo di continuità le «norme emotive», tappe di una vera e propria educazione sentimentale d’Europa. Dopo la condanna ciceroniana delle perturbationes, disordini dell’equilibrio interiore, minacce inferte alla stoica ataraxía, acquista centralità l’amicitia spiritualis in Agostino e negli agostiniani che, insieme all’equivalenza fissata da Alcuino fra animus, anima, cor, mens nel suo manuale dai «fini terapeutici» sui vizi e le virtù, lascerà un segno sulla fin’amors della prima poesia in volgare (uno strumento di ricerca utile è, nel libro, il «vocabolario emotivo in lingua d’oc alla corte di Tolosa», letto in palinsesto con quello del monastero cisterciense di Rievaulx).

Originali le pagine sul «travestimento da forma musicale» della teoria delle emozioni di Jean Gerson, che sul palmo di una «mano didattica» istruiva monaci e laici a «cantare la musica del cuore simultaneamente a quella della bocca». Infine, ecco l’anatomia della malinconia di Robert Burton, che pochi anni dopo Shakespeare scriveva: «Tutte le mie gioie sono follia, nulla è dolce come la malinconia. (…) Tutti i miei dolori sono allegria, nulla è triste come la malinconia»; ma poco più tardi anche il Leviatano di Hobbes, che progetta di «spianare le irregolarità» delle affezioni delle pietre-uomini con cui si deve costruire l’edificio-Stato.
Manca forse soltanto, nel bel libro della Rosenwein, un cenno alla tenerezza, la più misteriosa e imprendibile delle varietà emozionali del tempo moderno: di tenerezza per Tristano morì Isotta. Tenero fu Francesco d’Assisi con tutte le creature. Di tenerezza il nostro tempo ha bisogno: occorre riscoprirla: un giorno, forse, qualcuno ne traccerà la storia.