Le presidenziali Usa hanno colto tutti di sorpresa, visto che nessun sondaggio o quasi ne aveva previsto il risultato. Chi studia le metodologie di rilevazione dell’opinione pubblica, invece, sapeva già che l’arte del sondaggio è in crisi. Il fallimento del 2016 infatti non è isolato: anche le elezioni politiche britanniche del 2015, ad esempio, erano finite in modo molto diverso dal previsto. Nel nostro piccolo, pure il «pareggio» tra centrodestra e centrosinistra alle politiche del 2013 aveva preso tutti in contropiede, sondaggisti in testa.

In questi giorni si sono moltiplicati i tentativi di spiegazione dell’accaduto. Negli editoriali si è letto spesso di una tendenza dell’elettorato conservatore a non comunicare la propria intenzione di voto nei sondaggi. Molte persone, infatti, non sono disposte a dichiararsi pubblicamente di destra perché associano quell’orientamento politico ad una visione della società più egoista e, dunque, socialmente riprovevole. Ma questi editoriali provengono dagli stessi commentatori che fino all’ultimo giorno avrebbero scommesso su Clinton: possibile che persino loro siano a conoscenza del fenomeno, mentre i sondaggisti non sappiano tenerne conto?

ANALIZZARE DA VICINO i metodi usati dai sondaggisti può offrire qualche indizio. Una delle osservazioni più evidenti, e più spesso invocate per spiegare le difficoltà dei sondaggisti, è la crescente difficoltà a farsi rispondere dai cittadini. Il tasso di risposta ai sondaggi è sceso in meno di venti anni dal 36% al 9%, secondo un citatissimo report del Pew Research Center, uno degli istituti più blasonati in materia di sondaggi negli Usa. Significa che se prima bastavano tre telefonate per avere un parere su un certo argomento, ora ne servono più di dieci.

Una delle ragioni di questo calo dipende dal nostro modo di stare al telefono. I sondaggi, infatti, vengono effettuati soprattutto attraverso interviste telefoniche. Il principale cambiamento riguarda l’uso del telefono portatile: nel 2015 le famiglie statunitensi che usano una linea fissa sono diventate meno numerose di quelle che usano solo telefoni cellulari. La tendenza riguarda praticamente tutti i paesi, Italia compresa.

Per chi effettua le rilevazioni, la transizione dal telefono fisso a quello mobile comporta notevoli difficoltà. Occorre reperire i numeri di telefono privati e riuscire a convincere i cittadini a non rifiutare le telefonate che provengono da numeri sconosciuti, come quelli abitualmente utilizzati dai sondaggisti. Il rischio è che alle rilevazioni risponda un’esigua minoranza del campione scelto e che essa non possa più essere considerata rappresentativa della popolazione complessiva. Inoltre, i telefoni cellulari raddoppiano il costo di un sondaggio, che si aggira intorno a 70000 dollari per un questionario standard di una dozzina di minuti.

IL REPORT del Pew Research Center ha esaminato a fondo le conseguenze del calo di partecipazione, con risultati sorprendenti. Innanzitutto, chi risponde ai sondaggi, nonostante i numeri ridotti, rappresenta piuttosto bene l’intera popolazione dal punto di vista della provenienza geografica, del reddito, dell’orientamento politico e di quasi tutti gli altri fattori ritenuti influenti per le scelte di voto o di consumo dei cittadini. Quindi, nel complesso l’affidabilità dei sondaggi non è calata significativamente.

C’È SOLO UN ASPETTO in cui la bassa partecipazione può generare un segnale distorto. Secondo il rapporto Pew, «le persone disponibili a rispondere ai sondaggi sono le stesse che partecipano alla vita sociale con attività di volontariato». Tuttavia, aggiunge il rapporto, tra chi fa attività di volontariato negli Usa la percentuale di elettori repubblicani è maggiore che nel resto della popolazione. Dunque, i sondaggi semmai avrebbero dovuto sopravvalutare il consenso di Trump. Perciò, anche la difficoltà nel raccogliere informazioni non spiega la loro pessima performance.

Anche nel Regno Unito, dopo le previsioni clamorosamente sbagliate delle elezioni dello scorso anno, il sistema dei sondaggi è stato riesaminato a fondo. Come mai, infatti, tutte le società di rilevazione prevedevano un testa a testa tra conservatori e laburisti, mentre alla conta dei voti il distacco tra i due partiti arrivò al 7% a favore dei conservatori?

Per rispondere all’interrogativo, il British Polling Council (Bpc, una sorta di Confindustria degli istituti demoscopici) ha convocato un gruppo di esperti, capitanati da Patrick Sturgis dell’università di Southampton e in cui figura anche l’italiano Mario Callegaro, specialista di analisi di mercato per Google. La commissione ha avuto il compito di rivedere le metodologie adottate e di fornire suggerimenti utili a migliorare la capacità previsionale dei sondaggi di opinione.

LA RELAZIONE del Bpc, pubblicata nel marzo di quest’anno, è giunto a conclusioni opposte a quelle del rapporto Pew. Secondo gli esperti, la ritrosia dei conservatori a manifestare la propria opinione, o i cambiamenti di opinione dell’ultimo minuto, hanno avuto un ruolo marginale. «La causa principale del fallimento dei sondaggi nel 2015 è l’impiego di campioni statistici non rappresentativi che hanno sovrastimato l’elettorato laburista», scrive il team di Sturgis.

Non è affatto chiaro, dunque, come migliorare la qualità dei sondaggi politici. Peraltro, non è detto che ci sia molto da migliorare. I sondaggi rappresentano ancora uno strumento di indagine sociale piuttosto accurato, soprattutto al di fuori delle previsioni politiche. E osservando i dati provenienti dalle presidenziali Usa la performance dei sondaggisti appare meno catastrofica di quanto facciano pensare i titoli.

IN UN’ELEZIONE risolta spesso per poche decine di migliaia di voti, basta una piccola variazione nelle urne per generare grandi spostamenti nel risultato finale. Come ha osservato all’indomani del voto Nate Silver, il «re» dei sondaggisti statunitensi, «se un elettore di Trump su cento avesse votato Clinton, Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Florida sarebbero tornate dalla sua parte e l’interpretazione del risultato sarebbe stata del tutto diversa, premiandola con 307 grandi elettori», circa lo stesso numero di Trump. Oggi, prosegue Silver, parleremmo di un partito Repubblicano in profonda crisi, di un Paese «pronto a eleggere una donna presidente», e di «istituzioni politiche robuste in cui candidati indecenti vengono puniti». Purtroppo per Silver, e per tutti noi, non è andata così.

In ogni caso, c’è chi ritiene che la crisi sia passeggera e che le comunicazioni digitali non siano il problema ma la soluzione. I sondaggi si sposteranno sempre di più su Internet, prevede ad esempio Joe Twyman, capo della ricerca politica e sociale a YouGov, l’istituto di sondaggi che ha fornito i dati all’Economist. «Si tratterà di collegare i dati sull’uso di Internet con altre informazioni demoscopiche e demografiche, per creare una rappresentazione delle persone molto più ricca».

Sarà, ma per ora i padroni dei Big Data devono invece difendersi da un’accusa piuttosto grave. Sui social media, infatti, bugie e teorie del complotto hanno proliferato, facendo la fortuna di Trump. Se ora il presidente è lui è colpa di Facebook?

IL SOCIAL DI ZUCKERBERG aveva già dimostrato la sua temibile potenza un paio di anni fa. In un esperimento effettuato su 700mila utenti ignari, i ricercatori di Facebook avevano misurato gli effetti sullo stato d’animo degli utenti generati da piccole variazioni negli algoritmi che personalizzano l’informazione che ci viene mostrata con maggiore evidenza.

Qualcosa del genere potrebbe essere successo anche questa volta. Secondo il solito Pew Research Center, il 20% degli utenti dei social network ha cambiato idea sulla base di informazioni lette su Facebook. Spesso non si è trattato di informazioni veritiere, ma per gli algoritmi dei social network questo è meno rilevante dell’impatto delle news sulla profilazione degli utenti e sugli introiti pubblicitari. Lo stesso meccanismo, secondo i detrattori, è in grado di influenzare anche le istituzioni democratiche, con le conseguenze globali che oggi tutti paventano. Ma forse anche questa è una teoria del complotto.