Omissioni, depistaggi, massoneria, servizi deviati. E ipotesi fantasiose come quella del delitto per motivi privati e faide tra ex militanti di Lotta Continua. Ci sono voluti più di 25 anni per appurare che dietro all’omicidio di Mauro Rostagno c’era un movente preciso: il giornalista-sociologo è stato eliminato perché aveva alzato il velo sugli interessi di Cosa nostra a Trapani. Le sue denunce davano fastidio ai boss e probabilmente anche ai poteri forti che si sentivano minacciati da quell’uomo che raccontava gli intrecci e gli affari illeciti dal video di Rtc, l’emittente televisiva privata di Valderice. Per l’assassinio la corte d’assise due anni fa ha condannato all’ergastolo i capimafia Vincenzo Virga e Vito Mazzara come mandante e come esecutore materiale dell’agguato. Il verdetto arrivò dopo una lunga paralisi investigativa attorno a piste rivelatesi inconsistenti. È stato Antonio Ingroia, allora pm della Dda di Palermo, a riaprire il caso su input del capo della squadra mobile Giuseppe Linares, la cui impostazione investigativa ribaltava la tesi che aveva escluso la matrice mafiosa del delitto e l’aveva collocata all’interno della comunità Saman per tossicodipendenti, fondata da Rostagno e Chicca Roveri. Secondo quella versione il delitto sarebbe stato consumato per storie private si sarebbero intrecciate con una confusa gestione della struttura. Tutto falso: per il pm Gaetano Paci, che ha retto l’accusa col collega Fabrizio Del Bene, quelli erano «pregiudizi di chi indagò sull’assassinio». Rostagno invece fu ucciso per il suo «esemplare lavoro giornalistico» che aveva tanto infastidito Cosa nostra.

Dopo aver fondato e poi lasciato Lotta continua, negli anni Ottanta, dopo alcune parentesi a Parigi e in India, Rostagno era approdato a Trapani dove aveva fondato la Saman con il suo amico Francesco Cardella. Ma in Sicilia aveva allargato l’orizzonte del suo impegno diventando una voce scomoda dell’informazione. Al punto che con i suoi interventi dagli schermi di Rtc era diventati una «camurria» (rompiscatole). Così lo aveva apostrofato Francesco Messina Denaro, padre del superlatitante Matteo, allora al vertice delle cosche trapanesi. Rostagno seguiva le tracce dei traffici di droga, dei legami tra mafia e massoneria deviata, del malaffare nella pubblica amministrazione. Con i suoi servizi, sottolinearono i pm durante la requisitoria in Corte d’assise, aveva «svelato il volto nuovo della mafia a Trapani»: il passaggio da organizzazione tradizionale a struttura moderna e dinamica, gli intrecci con i poteri occulti, le nuove alleanze, il controllo del grande giro degli appalti. Mafia, dunque, «ma non solo mafia» perché, come sostennero i magistrati, in questa storia ci sono state tante omissioni investigative equiparate a veri e propri depistaggi culminati con l’arresto della compagna di Rostagno, Chicca Roveri. Per lungo tempo la ricerca della verità è stata frenata da «sottovalutazioni inspiegabili, omissioni, miopie». E solo nel corso del dibattimento è stata ordinata una perizia sulle tracce di Dna nel fucile impugnato dal killer che sparò a Rostagno, arma spezzata dalle esplosioni. L’accertamento scientifico stabilì la compatibilità con le tracce genetiche di Vito Mazzara, già campione di tiro a volo, e di un suo parente biologico non identificato. È questa la prova che ha incastrato il boss che era stato già condannato all’ergastolo come autore dell’agguato in cui venne ucciso, il 23 dicembre 1995, l’agente penitenziario Giuseppe Montalto mentre era in auto con la moglie rimasta illesa. L’accusa ha trovato molte analogie tra i due delitti. Subito la lettura della sentenza, la corte trasmise alla Procura gli atti relativi alle posizioni di dieci testimoni. Le loro dichiarazioni apparvero inattendibili oppure reticenti. E tra i testi sui quali è incentrato il nuovo filone d’indagine figurano anche due investigatori: Beniamino Cannas, luogotenente dei carabinieri all’epoca in servizio a Trapani, e Angelo Voza, sottufficiale della guardia di finanza. Le loro posizioni si collegano al lavoro giornalistico di Rostagno sui rapporti tra la massoneria deviata, la mafia, l’economia, la politica.

Nei suoi servizi il sociologo aveva delineato i contorni di questo contesto complesso. Ne aveva parlato con Cannas. Ma i due verbali con le dichiarazioni del giornalista non sono mai stati trasmessi ai pm. Solo a dibattimento iniziato se ne è avuta notizia e la corte li ha acquisiti da un altro processo, quello sulla loggia massonica segreta Iside 2, diventata punto di incontro tra poteri occulti e boss mafiosi come Mariano Agate e Natale Lala.