È ormai chiaro che la precarietà, definita esistenziale dai filoni di pensiero e di inchiesta che più approfonditamente l’hanno analizzata in questi anni, non ha a che vedere solo con la dimensione lavorativa. Tra smottamenti limacciosi, il dispiegarsi del paradigma bioeconomico ha aperto una frattura fertile, uno spazio ibrido meno impacciato dal peso di identità e istituzioni costruite sulla «norma» e sulle «naturalizzazioni». Lo smantellamento del diritto del lavoro e del welfare ha travolto le categorie di tempo e spazio, demolendo impieghi a vita, certezze pensionistiche e garanzie di reddito. Ma ha anche lasciato respirare originali creature sociali e desideri cangianti inseguiti da una razza bastarda (senza genere, senza genesi), per usare l’efficace immagine di Donna Haraway. Portatrice di forme inedite di vita e di scelte riproduttive eccentriche, essa inventa nuovi legami e nuove «famiglie», sperimentando diverse forme di colleganza, cioè nuovi discorsi amorosi.

Relazioni instabili

Così, appunto, la raccolta di saggi L’amore ai tempi dello tsunami. Affetti, sessualità, modelli di genere in mutamento (ombre corte, pp. 238, euro 22), curata da Manuela Galetto, Gaia Giuliani e Chiara Martucci, si lancia nella fondamentale e non abbastanza praticata esplorazione di questo nuovo panorama sociale dopo il passaggio dell’onda anomala che ha generalizzato la precarietà. Lo sguardo degli autori e delle autrici che hanno contribuito al testo si alza laddove si stagliano non solo macerie ma nuove configurazioni delle relazioni e degli affetti nella post-modernità. Si scopre allora la potenza amorosa espressa da una «nuova specie» nonché la forza costruttiva di esperienze fino a ieri oscurate, attraverso lo svelamento della multiformità della soggettività erotica. Le libertà che sorgono dalla assenza di assetti fissi disegnano una geografia istruttiva che evoca l’aspetto incoercibile del desiderio umano, pur costernato dai dettami del neoliberalismo. La vita, oggi disposta in funzione dei bisogni e degli imperativi dell’impresa, si dibatte disperatamente in cerca di un nuovo statuto, consono alle necessità presenti e il soggetto si interroga sulle tensioni che si scaricano sugli aspetti relazionali, affettivi e amicali, cercando vie d’uscita, cioè risposte immediatamente politiche.
«La condizione che risulta dalla scomposizione postmoderna del soggetto – si legge nella prefazione – è vista come quella in cui si producono l’atomizzazione e l’individualizzazione esclusivamente nel privato delle strategia per fronteggiare l’instabilità e l’insicurezza precarie. Il nostro interesse si rivolge invece alla necessità che il mutamento, inteso come precarietà diffusa, impone di un ripensamento complessivo delle forme di solidarietà e risponde all’urgenza di dare voce alle nuove pratiche affettivo-relazionali che l’attuale situazione economico-sociale produce».
La coppia monogamica eterosessuale e il «continuum socio-sessuale» da essa incarnato si sono sgretolati o, per dirla con il titolo di uno dei saggi, di Alessia Acquistapace, assistiamo al «decolonizzarsi della coppia». Si tratta ormai di una realtà specifica, che non può più pretendere di modellare tutti gli altri rapporti sociali; emerge il desiderio in quanto nozione autonoma.
Possiamo prendere coscienza del fatto che la forma della nostra soggettività è radicalmente storica e contingente? Possiamo ammettere la non-necessità e la non-naturalità del «regime di verità» sulla base del quale tale forma è stata costituita, senza provare al contempo il bisogno di cambiare gli aspetti del nostro rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo che troviamo inaccettabili? Senza provare, insomma, il bisogno di trasformare la soggettività che ci viene imposta e di contestare il regime di verità che «naturalizza» ed «eternizza» tale imposizione?.

Vite «buone»

«I corpi sono performance», ricorda Liana Borghi nella bella postfazione, «non sono una cosa e non sono permanenti»; «l’identità è un incontro, un evento, un incidente, un fatto, un momento del divenire di corpi in movimento». Vale la pena di riconfigurare i modelli esistenti di società e di politica e di capire allora quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare storture sociali e molteplici ingiustizie, «rifugiandoci in una piccola felicità, che non è poco, ma non basta a rendere buona una vita cattiva».
Le indagini raccolte affrontano tali questioni «costituenti» per la soggettività contemporanea attraverso un posizionamento autoriflessivo che rappresenta una precisa scelta metodologica (anch’essa politica) e assume allora, per forza, un’altra voce rispetto alla cristallizzazione delle logiche accademiche. Il linguaggio teorico viene decostruito dall’approccio prescelto, che considera «imprescindibile l’esplicazione della posizione da cui gli autori e le autrici guardano le cose». Porpora Marcasciano ricorre, perciò, alle parole «nude e crude» delle persone transessuali per esplicitare come il «transito» dia forma all’amore perché lo insegue laddove si trova senza accontentarsi della corrispondenza tra sesso e genere rispettosa dei sistemi socio-sessuali vigenti. E Gaia Giuliani e Chiara Martucci, in un dialogo sorprendente ricostruiscono i nessi tra la grande storia (la guerra del Golfo, Genova 2001…), lo svanire del diritto del lavoro, i movimenti sociali che hanno interpretato e combattuto la precarietà, i collettivi femministi che hanno letto le ricadute esistenziali nel fragilizzarsi del lavoro (Mayday Parade; Sconvegno; Sexyshock) e la storia personale, che ha affrontato direttamente il mutamento, anche violento, con nuove consapevolezze e nuovi processi di produzione affettiva.
Ci spiega, Laura Fantone, come il desiderio di maternità possa essere reinterpretato facendo di se stessa una donatrice di ovociti, il che significa allargare la capacità generativa dell’essere, svincolandosi dal mito della coppia eterna e dal paradosso di una società italiana che vuole generazioni flessibili non libere di avere famiglie flessibili. Corpi, insomma, disponibili a sperimentare nuove agency, radicalmente politiche. Elisa Arfini, «la ricercatrice vulnerabile», parte da sé per ragionare di disabilità e sessualità fornendo indicazioni strategiche: «il modello sociale della disabilità consentirà di resistere all’individualizzazione, alla segregazione e alla normalizzazione per produrre una politica della disabilità come politica di classe».
Possiamo puntare anche attraverso queste pratiche su una nemesi del capitalismo? Sarà sufficiente questa tensione multi-amorosa, questa pulsione vitale che ci collega al mondo, a scardinare gli ordinamenti neoliberali? Pensiamo che le esperienze materiali tra corpi e corpi che innervano la realtà quotidiana siano assolutamente più avanti dell’ottusità di governanti e chiese. Il punto è riuscire a connettere tutti questi immensi esercizi di rottura, questo groviglio quantoqueer, spingendo la contraddizione rappresentata dalla discrasia tra il dovere e il volere essere al cuore stesso del potere.
Si tratta, insomma, di politicizzare (organizzare), sempre più e sempre meglio, il tema dell’autonomia del soggetto contemporaneo, determinando nuovi rapporti di solidarietà capaci di tradursi in nuovi, e più giusti, rapporti sociali.