«Avevamo chiesto come forma di rispetto delle volontà di Giulio che non fosse pubblicato il suo articolo. Il manifesto non l’ha rispettato ma la famiglia non vuole fare polemiche, ha altre priorità». Alle 14.30 l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, conferma all’Ansa quanto ci aveva anticipato al telefono in mattinata. Per la famiglia dello studioso ucciso al Cairo il «caso manifesto» è chiuso.

Bene. Perché per tutto giovedì e ancora ieri, aveva destato enorme scalpore, soprattutto in rete, la diffida dei legali della famiglia Regeni in merito alla pubblicazione dell’ultimo articolo che ci aveva inviato il ricercatore friulano.

Regeni ci aveva scritto una mail lo scorso 9 gennaio con l’espressa richiesta di pubblicarlo in quanto il manifesto era, parole sue, il suo «giornale di riferimento in Italia, ed «è naturalmente sensibile» alle mobilitazioni dei lavoratori in Egitto. Del resto, non sono molti i quotidiani del nostro paese a interessarsi con regolarità delle vere condizioni sindacali e di lavoro in Tunisia, Egitto, India, Pakistan, solo per citare alcuni paesi di cui ci occupiamo frequentemente.

Le motivazioni della diffida, che ci è pervenuta via fax giovedì alle 19.25, erano essenzialmente due: la preoccupazione per la sicurezza di Giulio Regeni e della sua famiglia che era al Cairo, la preoccupazione per eventuali amici del ricercatore ancora presenti in Egitto.

Il testo, letto nella sua interezza, ci è apparso subito singolare. Vi si legge ad esempio che Giulio non era ancora morto e che avremmo rifiutato l’articolo perché l’avremmo voluto pubblicare solo con il suo vero nome.

Due circostanze con tutta evidenza false.

La prima, perché alle 19.25, purtroppo, i familiari accompagnati dall’ambasciatore italiano in Egitto avevano già riconosciuto il corpo del figlio e quindi la preoccupazione per la sua sicurezza – da noi condivisa a priori – era purtroppo tragicamente superata dall’avvenuto omicidio.

Nello scambio di email con Regeni tra il 9 e il 12 gennaio scorso, spiegavamo di non avere spazio in quei giorni ma ribadivamo che l’argomento era interessante e che ci saremmo risentiti. Il ricercatore era libero di pubblicarlo altrove.

Regeni, nell’ultima mail scambiata con la redazione, accettava questa decisione «un po’ a malincuore», e diceva di restare «a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto», perché «è comunque un piacere poter pubblicare sul manifesto».

A gennaio, e durante la sua scomparsa, l’articolo non è stato da noi pubblicato sotto nessuna forma.

La seconda circostanza anomala nella diffida riguardava l’uso dello pseudonimo che noi, secondo l’avvocato Ballerini, non avremmo voluto rispettare. Fatto non veritiero perché, in passato, abbiamo già usato lo strumento dello pseudonimo.

Non è infrequente, infatti, che molti freelance chiedano di non usare il proprio vero nome per evitare problemi con le autorità di sicurezza dei paesi in cui trovano a risiedere e lavorare. Esistono articoli scritti a 4 o 6 mani firmati da un unico nom de plume.

A maggior cautela, fin da giovedì mattina, ben prima della diffida e del caos della giornata, abbiamo rimosso tutti gli articoli di Regeni dal nostro sito, chiedendo di fare altrettanto ai motori di ricerca. Abbiamo cioè fatto il massimo prima, durante e dopo il sequestro per garantire la sicurezza di Giulio Regeni.

Per questo ieri abbiamo deciso di non tenere conto della diffida dell’avvocato Ballerini, rispettando la volontà del ricercatore, che li aveva inviati espressamente al manifesto al fine di vederli pubblicati.

A chi sui social network ci accusa a sproposito di «sciacallaggio» a fini di lucro, possiamo solo ricordare che gli articoli del manifesto si leggono (anche) gratis sul sito e senza pubblicità.

Senza sapere nulla di questi fatti, molti si sono espressi su tale diffida – inoltrata ormai alle agenzie di stampa, all’ordine dei giornalisti, al garante per la privacy -, sollevando un’ondata di telefonate di chiarimento in redazione, come se l’articolo in questione contenesse segreti di stato, accuse politiche o scoop inquietanti.

Si tratta, com’è oggi evidente dopo la sua pubblicazione, della semplice cronaca di un’assemblea di operai e operaie egiziani e dell’interpretazione di Regeni della situazione sociale in quel paese.

Abbiamo rispettato alla lettera e fino all’ultimo le volontà e le capacità professionali e culturali di questo brillante ricercatore, sollevando il velo sul suo vero nome solo dopo la conferma ufficiale del suo omicidio e il riconoscimento del corpo da parte dei genitori.

Se si vuole conoscere «tutta la verità» sulla sua morte, come abbiamo scritto anche nell’editoriale di ieri, bisogna iniziare da se stessi, e sgombrare il campo da eventuali illazioni, fango e sospetti sul suo lavoro.

Averlo messo a disposizione di tutti è stato il primo strumento – l’unico che può avere un giornale – al servizio della verità e della giustizia.

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