«Abbiamo la sensazione che qualcuno all’interno del parlamento possa avere interesse a riprendere il normale scambio diplomatico. Siamo assolutamente contrari».

I genitori di Giulio Regeni sono chiarissimi: l’ambasciatore italiano non torni al Cairo. «Il lavoro che fa la Procura di Roma è ottimo – dicono Paola e Claudio – Di strategia, intelligenza, educazione. Il governo ha compiuto due unici passi, forti: ha ritirato l’ambasciatore ad aprile e non ha mandato i pezzi di ricambio per gli F35. Se l’ambasciatore torna, daremmo un segnale di distensione all’Egitto che non è il caso di dare».

La famiglia Regeni continua a fare pressioni («Abbiamo sentito oggi Gentiloni: sembra che ci siano dei segnali, un piccolo spiraglio aperto dall’intelligenza della Procura. E chiediamo a voi giornalisti di andare a Cambridge a chiedere perché non si sono interessati a Giulio»). A sostenerli ieri, nel primo anniversario dalla scomparsa, migliaia di cittadini.

A Roma i ragazzi si dispongono in fila, ognuno con un cartello giallo tra le mani e un numero. Dall’1 al 365, i giorni trascorsi senza Giulio Regeni e senza verità. Formano un triangolo, li alzano su: ai numeri si intervalla il volto di Giulio, che tutti abbiamo imparato a conoscere.

Quello che non abbiamo conosciuto era l’altro suo volto, quello quotidiano, spensierato. Sono la madre e il padre in collegamento telefonico con la mobilitazione organizzata da Amnesty Italia a Roma a svelarlo: «Era un giovane uomo, studiava, lavorava. Ma si divertiva, combinava le sue, si prendeva in giro. È la parte che ci manca di più: come parlava, come camminava. Il dolore più forte è sapere che non può più provare emozioni».

Il giardino dietro il rettorato della Sapienza è pieno. Il sole scalda le centinaia di persone presenti, mentre lo staff di Amnesty distribuisce i cartelli numerati. C’è emozione, palpabile, e voglia di testimoniare solidarietà. Che, ci dice un gruppo di ragazze, non è «un teatrino, noi Giulio lo sentiamo davvero vicino, per ciò che faceva e la passione che ci metteva».

Ricerca e curiosità, stupore per il mondo intorno e impegno politico. La spinta verso la giustizia sociale attraverso la conoscenza la riassume nel discorso di apertura il rettore Eugenio Gaudio: «Questa è una sede naturale [per l’iniziativa] perché Giulio era uno di noi, uno studioso, un ricercatore, un amante del sapere e dell’internazionalizzazione della conoscenza. È un esempio di vocazione alla giustizia sociale, di libera informazione contro la retorica del silenzio».

Dal piccolo palco emergono tutti i tratti bui della vicenda: i silenzi di Cambridge, i depistaggi egiziani, la debolezza del governo di Roma e l’ipocrisia dell’Europa. Un mix letale che inquina la verità, in aperta opposizione con l’insistenza della società civile: «Si è creato un network di informazione, giornalisti, blog, associazioni, individui – grida dal palco Beppe Giulietti, di Articolo 21 – Ricordo quando furono uccisi Impastato, Fava: la mafia parlò di questione di donne, torbidi affari. Lo stesso linguaggio del regime egiziano».

Le parole che si rincorrevano ieri ribadivano la convinzione di conoscere già la faccia degli aguzzini del giovane, il regime di al-Sisi. Gli ultimi giorni sono stati segnati dal revival delle “mele marce”, strisciante ipotesi che le autorità egiziane portano avanti indirettamente, con l’aiuto di video passati sotto banco alla stampa, folli interviste rilasciate da Mohammed Abdallah (capo del sindacato ambulanti), presunte inchieste su cinque poliziotti.

Alla base sta la posizione mai abbandonata dal Cairo: di «caso isolato» s’è trattato. Così non è: «Come Giulio era prima di tutto una persona con i suoi diritti, lo stesso sono gli egiziani che subiscono sistematicamente identica sorte – ricorda Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia – Chiediamo la fine della repressione del popolo egiziano».

Da Roma e dalle tante città italiane che ieri alle 19.41 (ora in cui di Giulio si sono perse le tracce) hanno acceso candele per illuminare la verità, da Fiumicello a Palermo, arriva forte la richiesta di sostegno alla società civile egiziana, ancora viva nonostante i tentativi di soffocare l’afflato di Tahrir.

Una richiesta che ha destinatari precisi, a partire dalle istituzioni italiane. Ieri il premier Gentiloni twittava: «Un anno dall’orribile uccisione di Giulio Regeni. Vicinanza alla famiglia. Impegno con la magistratura per ottenere verità». Ma l’impegno scarseggia e il timore è quello di un prosieguo dei rapporti con l’Egitto. Difficile parlare di semplice normalizzazione, visto che una rottura vera non c’è stata mai.