Un incontro milanese, quello con Maurizio Galimberti (Como 1956, vive e lavora a Milano), che avviene in occasione della sua donazione di una serie di dieci polaroid e un «instant portrait» a The Citizens Foundation – TCF, organizzazione pakistana non governativa, laica e senza fine di lucro, nata nel 1995 con l’obiettivo di sostenere il diritto all’istruzione per i bambini più svantaggiati. «La fotografia è la mia fata ignorante – afferma il fotografo – è sempre con me. La amo più di ogni altra cosa. Sono l’esempio di uno crede in un sogno e lo realizza». È con questo spirito che l’autore di Portraits, a cura di Benedetta Donato (Silvana editoriale), si fa portavoce, in particolare, del progetto Art for Education – L’arte a sostegno dell’istruzione femminile in Pakistan.
Qual è stata la svolta, alla fine degli anni ’80, che ti ha portato all’utilizzo della polaroid con un taglio personale?
Quando ho iniziato ero un geometra infelice che faceva fotografia, ma certo non avrei mai immaginato che da questa passione sarebbe nata una professione. Mi piaceva molto stare in camera oscura, dove ho trascorso moltissimo tempo tra i 18 e i 26 anni. Mio cognato, che a sua volta aveva imparato da suo fratello – che viveva in Romagna – mi ha insegnato la tecnica del bianco e nero. Noi eravamo a Milano, quindi seguivamo quelle indicazioni da lontano. Continuavamo a scattare fotografie e a sviluppare rullini che venivano sempre neri. Tutto il resto era perfetto, ma ci eravamo dimenticati del fissaggio. È come quando uno compra una super macchina e, vedendo che non va, la smonta tutta e poi si accorge che manca la benzina. Comunque, una volta risolta la questione del fissaggio, abbiamo cominciato a fare delle cose interessanti. All’inizio fotografavamo i contadini, la Brianza che era molto diversa da oggi e a me piaceva fare anche ritratti. Poi, mi è venuta un po’ la nausea della camera oscura, perché non mi piaceva troppo stare al buio. Forse perché durante l’infanzia sono stato per qualche anno in orfanotrofio. Il buio mi ricordava quella solitudine. Quindi o smettevo di fotografare, o usavo una macchina fotografica che mi permetteva di fotografare al chiaro. In realtà, le reflex che usavo scattavano al chiaro, ma poi bisognava comunque portare le stampe al laboratorio. Mi piaceva anche vederle subito. Per questo ho iniziato a usare la polaroid, rendendomi conto immediatamente che era un mezzo fantastico per convivere con la storia dell’arte. Come diceva Calvino, «la fantasia è come una marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane», dove il pane solido è il proprio background culturale. Ho capito che con la polaroid potevo fare un discorso di rivisitazione della storia dell’arte, partendo dalla manipolazione impressionista, Van Gogh, il Cubismo e arrivando ai «mosaici», in cui mi ispiro a tutta l’epoca del Bauhaus, ma anche a David Hockney con i suoi «mosaici braquiani». C’è stata tutta questa scoperta. La polaroid era una sorta di laboratorio creativo molto più interessante che non una reflex in bianco e nero o a colori. Vedere subito il risultato, scattare un’altra foto e metterla lì accanto, mi ha aperto un mondo!
Nei tuoi ritratti l’incontro con il soggetto è estremamente intimo. Come viene vissuto dal soggetto?
Fin dall’inizio mi piaceva quello che ancora oggi si vede nei miei ritratti, l’immagine che si ripete, la dilatazione. Per arrivare a questi ritratti ho fatto varie sperimentazioni, ispirandomi a Muybridge e Edgertone. Negli anni sono passato dal fare un ritratto di 20 polaroid, fino ad 800. Ho l’impianto scenico in testa. I miei ritratti sono fatti sempre in una sequenza che va dall’alto in basso, da sinistra a destra. Non cambio nulla, se non in casi eccezionali. Ma, come dicevo, deve essere proprio un’eccezione, perché perdere la sequenza è come un abito a cui si fa un taglio e che viene rappezzato. Con il soggetto c’è un rapporto intimo pazzesco. Le prime committenze importanti me le diede Class nel ‘93-’94. Era il periodo dello yuppismo ed i manager avevano l’ufficio stampa con personal communication. Quando mi chiedevano come dovevano farli preparare per il ritratto, la mia risposta era che l’importante è che avessero le unghie a posto e non avessero le orecchie sporche e i peli nel naso. Pensavano che li stessi prendendo in giro, non capivano che poggiavo la macchina proprio addosso alla persona. Il rapporto è sempre stato così particolare, intimo, quasi erotico. Ad esempio il ritratto di Angelica Houston, che feci a Venezia, è solo di 12 polaroid. Dopo la decima lei esclamò che non ce la faceva più. Le sembrava ancora di avere addosso il padre che la picchiava. Sentiva che le stavo facendo una violenza e se ne scappò. Questo rapporto ravvicinato fa venire fuori le inquietudini che si portano dentro. Ma c’è sempre anche lo stupore, la sorpresa, magari anche il fastidio, perché sono abbastanza grande e grosso, quindi posso anche essere fastidioso. De Niro non voleva assolutamente farsi ritrarre, a convincerlo fu il fatto che, essendo testimonial della polaroid – avevo appena fotografato anche Lady Gaga – che nel 2010 era sponsor del Tribeca Film Festival – e lì ballavano 400 mila dollari – con il suo ritratto si sarebbe tappezzata New York con gigantografie anche a Times Square. Alla fine lui accettò. Quando vide il ritratto cominciò a piangere, mi abbracciò, si scusò e arrivò perfino ad inginocchiarsi! Poi, mi invitò a casa sua per fotografare tutta la famiglia, incluso il figlio autistico. Invece, nel 1999, Berlusconi si fece mettere davanti a uno specchio, perché se non vedeva cosa facevo diventava pazzo. Fu una scena anche comica. Di ogni immagine si potrebbe raccontare una storia, ad esempio Lalla Romano prese la foto, la guardò e si mise a piangere; anche Dario Fo si commosse. Ricordo che Alberto Sordi mi disse che nella foto vedeva un uomo vecchio e solo.
Parlando di tempo, quanto ne richiede la realizzazione di un ritratto?
Dai dieci minuti alla mezz’ora. Ma dipende molto anche dall’atmosfera che si crea, dal feeling. Il lavoro deve essere un po’ come il concetto di spazialismo di Fontana. Deve contenere l’attesa. Parli con il soggetto, lo studi. Io cerco anche di chiudere gli occhi e quando arriva me lo trovo lì. Cartier-Bresson diceva sempre che il ritratto deve essere come una zanzara pungente in silenzio. Quindi aspetti, guardi e attraverso un taglio di tela ti appropri di uno spazio e gli metti il tuo segno. Io mi approprio del volto di una persona e lo racconto, lo scrivo, velocissimamente come se fosse proprio un taglio. La composizione è meccanica, perché viene fatta durante lo shooting. È tutto diretto. Vederlo fare è, forse, la cosa che affascina di più del mio lavoro.