In un ciclo di lezioni degli anni Novanta, il grande studioso di origini palestinesi Edward Said, reinterpretando il ruolo degli intellettuali nelle società contemporanee, sottolineava come il compito della critica social sia oggi quello di opporsi alla semplificazione ideologica degli eventi e dei fenomeni – in buona parte operata dai mass media – mostrandone al contrario la complessità e l’ambivalenza. Dopo gli attentati a Charlie Hebdo e a Copenaghen, al precipitare della crisi libica (ampiamente dovuta agli errori dei governi europei, compreso quello italiano dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), nel nostro paese si assiste giornalmente, nei talk show neo-populisti che caratterizzano gran parte dell’offerta televisiva di Rai e Mediaset, ad un’orgia di ignoranza e semplificazioni stereotipate sui conflitti in corso e sui migranti di origine araba. Nel senso di una più ampia comprensione del fondamentale nodo del rapporto religioni, politica e società nel tragico profilarsi di una seconda guerra al terrore, si muovono tre interessanti volumi, recentemente pubblicati.
Il primo è un libro del sociologo francese di origini iraniane Farhad Khosrokhavar (o francesizzato Cavard) intitolato Radicalisation (Edition Maison des Sciences de l’Home, euro 12), purtroppo non ancora tradotto in italiano. Secondo la sua analisi, che si basa su un’ampia mole di ricerche condotte negli ultimi anni anche all’interno delle carceri francesi, il jihadismo islamico contemporaneo (compreso quello dell’Isis) non sarebbe tanto un’ideologia specifica quanto l’espressione di un fenomeno più ampio e ricorrente nella storia politica della modernità: la radicalizzazione. Si tratta della costruzione di un’utopia al contrario (definita tecnicamente «distopia»), il cui senso non è tanto quello di animare un progetto collettivo di trasformazione della società (come accadeva tipicamente per le «grandi narrazioni» o le utopie del XX secolo) ma di motivare un’azione violenta di rottura dell’ordine sociale e di eliminazione del «Nemico», elevati a valori assoluti.

Una doppia assenza

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La radicalizzazione si fonda così sul sentimento di umiliazione e disperata marginalizzazione che ad un certo punto si impossessa di chi ha acquistato coscienza dell’ingiustizia subita e della mancanza di potere che ne deriva. Affinché questo «uomo in rivolta» indirizzi la sua azione in modo brutale, violento e distruttivo facendo appello a codici arcaici (come un’interpretazione letterale e «politica» del Corano) è necessaria una «doppia assenza»: quella di organizzazioni politiche strutturate in grado di fare una sintesi più avanzata di questo ribellismo di base e la marginalità sociale. Come antidoto intellettuale a questa deriva occorre ricordare lo scritto di un «rimosso» del Novecento, cioè quel Lenin de Estremismo, malattia infantile del comunismo. Parallelamente a questa assenza, va segnalata un’espressione il deficit di una democrazia senza classi dirigenti ma ricca di gruppi di interessi e di leader mossi solo dalla volontà di potenza.

Il fallimento delle rivoluzioni arabe da una parte, il carcere e la diffusione di una socialità che può esprimersi solo tramite i nuovi media dall’altra, divengono così i vettori di una radicalizzazione che ripropone oggi lo storico conflitto tra colonizzati (dell’Africa e del Medio Oriente) e colonizzatori (europei) in una fase di generalizzata crisi economica del Mediterraneo.

Se l’analisi di Cavard ci fa vedere cosa c’è dietro le minoranze radicalizzate, il libro di Maria Luisa Maniscalco L’Islam europeo. Sociologia di un incontro (Franco Angeli, euro 23) evidenzia efficacemente l’altra faccia della medaglia, quella del radicamento dei cittadini mussulmani in Europa, cercando di coglierne tutta la complessità. Interpretato dall’autrice come uno dei principali avvenimenti degli ultimi trent’anni, questo radicamento è l’espressione (sino all’11 settembre 2001 largamente ignorata da media, intellettuali e politici del vecchio continente), di un particolare processo di «integrazione nell’integrazione», cioè di europeizzazione dei cittadini islamici (prevalentemente di origine extra-europea) mentre procede tra mille contraddizioni la stessa «europeizzazione degli europei».

Integrazione nell’integrazione

Attraverso una molteplicità di angolazioni, l’analisi della Maniscalco rivela come la diaspora islamica presente in Europa non si caratterizzi solo per la marginalizzazione e la riproduzione di modelli culturali tradizionali. Al contrario, come accade per ogni processo di integrazione e interscambio tra migranti e società di insediamento, tanto gli uni quanto le altre si modificano profondamente: il razzismo culturale che vorrebbe immutabili le culture e le civiltà, per teorizzarne ideologicamente lo scontro e la reciproca, inconciliabile, ostilità, ne risulta ancora una volta clamorosamente smentito. Ad esempio, accanto ai già citati fenomeni di radicalizzazione è ampiamente presente la diffusione di un Islam liberale, teorizzato da intellettuali come Ayaan Hirsi Alì, che giungono a volte a posizioni apertamente secolariste, che non trovano però cittadinanza nel discorso mediatico. Allo stesso modo, episodi come la rivolta dei giovani di Lille-Sud del 2000, mettono in luce il fallimento dei tradizionali meccanismi con cui lo Stato moderno ha gestito marginalità e assistenza sociale, evidenziando al contrario come il ruolo dei predicatori mussulmani, in grado di fare breccia nelle «menti e nei cuori» di questi giovani, sia stato spesso quello di mediare le loro insoddisfazioni, mostrando come il buon mussulmano rispetta le leggi civili del paese in cui si trova.

Il fenomeno dei convertiti all’Islam rompe poi la tradizionale equazione straniero\Islam e apre la strada non tanto al radicalismo quanto a nuovi percorsi interculturali. Insomma: parlare ideologicamente dell’Islam europeo come di un fenomeno unitario e come di un terreno ostile e irrimediabilmente contrapposto alla modernità, appare privo di senso. Contaminazioni e contraddizioni interne a questo fenomeno, la diversa provenienza etnica, nazionale e confessionale dei mussulmani europei, rivelano la presenza di molteplici comunità alla ricerca di nuove identità. Solo cedendo allo sguardo unidimensionale dello strisciante essenzialismo culturale, si corre il rischio di aprire una prateria alla radicalizzazione.

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Il terzo ed ultimo testo di questo viaggio in direzione della complessità è il volume collettaneo curato da Isabella Crespi e Elisabetta Ruspini Genere e religioni in Italia. Voci a confronto (Franco Angeli, euro 31). Attraverso una focalizzazione sulla situazione italiana, il lavoro delle due sociologhe contribuisce a demolire un’altra immagine consolidata: quella di un rapporto problematico e violentemente patriarcale tra genere femminile e religione che riguarderebbe solo l’Islam. Certamente, in quest’ultimo caso la situazione è, anche nel nostro paese, molto più seria ma, in generale, proprio su questo terreno si crea una possibilità di costruzione di nuove solidarietà tra donne, che vanno oltre gli artificiosi steccati della rappresentazione mediatica e del potere patriarcale.

Le donne sono all’interno delle tre religioni monoteiste «l’Altro per eccellenza»: nei dispositivi di controllo sociale messi in campo da chi esercita il potere sono l’oggetto più che il soggetto di un disciplinamento e di una marginalizzazione che le esclude spesso dai ruoli di responsabilità all’interno delle rispettive chiese. Mentre in anni passati il femminismo si esprimeva frequentemente come critica esterna, di donne secolarizzate, alle istituzioni religiose, oggi si assiste ad un fiorire trasversale di nuovi femministi interni al discorso e all’appartenenza religiosa – compresa quella all’Islam. Così, questa nuova richiesta di una cittadinanza adeguata alle trasformazioni delle soggettività femminili, diviene un terreno comune di incontro e dialogo tra donne appartenenti a religioni diverse. Ancora una volta, una delle più importanti dimensioni del mutamento sociale in atto in Europa e, più in generale, nel bacino del Mediterraneo.

Un nuovo assetto globale

Nel capitolo XXXII dei Promessi Sposi, parlando della peste e della grande paura degli untori, Alessandro Manzoni dice: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Lo stesso sembra accadere oggi e per questo motivo ritorna con forza l’appello di Edward Said che è un invito a studiare e analizzare le cose con serietà per poter agire nel modo corretto. Ciò che infatti sembra emergere anche dai volumi sin qui analizzati è che, da una parte la radicalizzazione dell’Islam fuori e dentro l’Europa si lega ad un conflitto interno al riassetto del sistema-mondo globale, lì dove i dittatori precedentemente appoggiati dall’Occidente appaiono superflui e nuovi attori (alcuni tradizionali altri, come l’Isis, pienamente postmoderni) sfuggono al controllo. Ricercando la propria legittimità il quel senso di umiliazione e marginalità delle masse arabe (e non solo) alimentato a dismisura proprio a partire dall’11 settembre.

Dall’altra parte, la radicalizzazione è anche il «sintomo» di un complesso processo di trasformazione, di post-secolarizzazione (vedi ad esempio il ruolo delle donne) e finanche di europeizzazione che coinvolge in modo radicale una gran parte dei cittadini mussulmani presenti in Europa. Da questo punto di vista, mentre timidamente e contraddittoriamente sorgono nuove identità e nuove possibilità di reciproca contaminazione tra culture diverse, razzismo culturale e fondamentalismo si rafforzano a vicenda nel tentativo di soffocare queste possibilità positive, mossi dall’esigenza di un più brutale riassetto di poteri e interessi al livello locale e mondiale. Solo se prenderemo pienamente consapevolezza di questi rischi e delle opportunità che invece ci si aprono di fronte, saremo in grado di trovare soluzioni alternative e praticabili alla pura logica della guerra permanente, fuori e dentro l’Europa.