Certo, l’amore nella Recherche è soprattutto immaginazione e sofferenza. Immaginazione di ciò che l’altro non è e dunque sofferenza per la delusione che inevitabilmente lo accompagna. E non si tratta solo dell’amore. È l’intera realtà ad acquistare senso soltanto come materiale dell’immaginazione, in quanto siamo noi ad aggiungervi l’essenziale: un significato, un’attesa, un ricordo. Ma in questo modo la Recherche si trasforma da romanzo della sofferenza a itinerario nella gioia/godimento, si trasforma nella jouissance di cui parla Miguel de Beistegui in Proust e la gioia, Per un’estetica della metafora (traduzione di A. Aloisi, Ets, pp. 145, euro 15,30).
Per Beistegui, il segreto di Proust abita nella metafora. Vale a dire in una mancanza che viene riempita, ma il cui vuoto è il luogo dal quale si genera ogni pienezza. «Un sentimento di scissione e di alienazione, di mancanza irreparabile. Vincere questo sentimento vorrà dire, quindi, considerare il reale in modo diverso, e più precisamente, crearlo. Il nostro punto di partenza, che finirà tuttavia per essere capovolto e per realizzarsi in un’estetica della metafora, presuppone quindi l’esistenza di un deficit ontologico, il quale può essere enunciato così: alla base del nostro rapporto con il mondo c’è una mancanza che non è qualcosa di meramente negativo, ma consiste in una vera e propria mancanza d’essere (essa è mancanza esattamente nel senso in cui sia parla di un ‘mancato guadagno’). Questa mancanza o aspettativa delusa è il segno o l’indizio di una verità che si trova al di là della realtà semplicemente presente, o meglio ripiegata in essa, come il suo rovescio. Tale mancanza è originaria e strutturale: non si tratterà quindi di porvi rimedio colmandola, creando o andando alla ricerca di ciò di cui manca. Ciò che manca svolge infatti la sua funzione per il fatto stesso di mancare».
L’oblio, il dissolversi di ogni cosa, la difficoltà di rievocare l’essere stato è in realtà la condizione per accedere alla memoria più profonda – quella involontaria dalla quale si genera la gioia -, per l’avvento del tempo allo stato puro, per la reminiscenza: «Il ricordo involontario è precisamente la via d’uscita da questa concezione mimetica dell’arte; rompendo con la memoria come rappresentazione, Proust rompe anche con l’arte come simulacro o come copia di copia».
La metafora è esattamente questo, è uno spostamento che apre autentiche rivelazioni, le quali sarebbero rimaste nascoste per sempre senza il vuoto che la metafora riempie. Metafora è «conoscere, o meglio, riconoscere una cosa in un’altra» e dunque modificare lo spazio e il tempo del racconto trasportando narratore e lettore in uno spaziotempo altro, che non sta nei luoghi o negli istanti che si susseguono passivi e tutti uguali ma dentro il corpomente stesso che, producendo i propri ricordi, genera il tempo autentico della vita.
È anche per questo che la memoria è il luogo della gioia, è per questo che la letteratura è – secondo la formula più volte da Proust ripetuta – «la vita vera, finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita realmente vissuta»; «l’arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale» (Il tempo ritrovato, traduzione di G. Caproni, Einaudi 1978). Il lavoro letterario è infatti un lavoro sulla differenza, capace di trasformare la malinconia in pienezza.
Quale differenza? Differenza tra che cosa? Tra i fatti e gli eventi, tra ciò che sembra rimanere stabile ma la cui identità consiste nell’incessante trasformazione che lo intride. Il tempo dei fatti è il tempo cronologico, è il tempo lineare, oggettivo, astratto e impersonale. E poi c’è quello degli eventi, il tempo capace di toccare il futuro dell’attesa e dell’immaginazione sul fondamento della memoria viva, della memoria ogni volta costruita dall’intero corpo che sente gli eventi attraverso le sensazioni del tatto, della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto.
È il tempo che conosce l’identità di un oggetto, di un luogo, di una situazione perché riconosce la trasformazione degli oggetti, dei luoghi, delle situazioni. Una trasformazione che non li annulla ma li mantiene identici pur nella differenza, anzi proprio per mezzo della differenza. Conoscere significa riconoscere l’identità nella differenza.
Tutto questo, esattamente questo, è il Tempo perduto di cui Proust va alla ricerca: «No, Albertine è tutta intera nelle sue metamorfosi: è uccello, pianta, paesaggio al tempo stesso; è un po’ Odette, un po’ Andrée e un po’ Marcel. Albertine è tutte queste cose insieme e contemporaneamente, senza che si possa mai dire che cosa veramente o essenzialmente sia. Al pari del mondo considerato nella sua totalità, essa corrisponde sempre a uno stato del divenire, a un certa composizione della materia che, entrando in contatto con altre, diventa qualcos’altro». Divenire significa diventare altro rimanendo identici. Divenire è quindi la sostanza di tutte le cose che sono. Essere è tempo, il tempo è la gioia.