Sta per concludersi uno dei peggiori capitoli nella storia dell’urbanistica romana. Una storia ormai secolare, che pure può vantare una ragguardevole quantità di scelleratezze. Tra strombazzi inaugurali e pacchianerie varie, proprio oggi uno dei gioielli dell’archeologia ferroviaria di fine Ottocento diventa un grande centro commerciale: un altro centro commerciale, l’ennesimo. Ma questa volta non annidato ai bordi della città, bensì incapsulato, incistato nella città storica: circondato da grandi fabbricati d’inizio secolo, affacciato su un’arteria stradale perennemente congestionata.

Lo chiamavano affettuosamente (e anacronisticamente) il deposito Stefer dell’Alberone, dall’acronimo dell’antica municipalizzata del trasporto su ferro. Si trova in Via Appia Nuova, al centro di un quartiere ad alta densità abitativa, appoggiato sul margine dell’intensissimo flusso di traffico che attraversa Roma dal sud al nord. Diecimila metri quadrati di una meravigliosa, quanto cadente e abbandonata, rimessa ferroviaria. Aggraziate travature in ferro, grandi vetrate, arredi industriali, perfino qualche polveroso macchinario.

Da lì partivano i trenini che andavano a raggiungere i Castelli romani, Frascati, Grottaferrata, Velletri. Transitando lungo i popolosi quartieri della Via Tuscolana e facendo tappa nei sacrari della cinematografia italiana, l’Istituto Luce, il Centro sperimentale, gli stabilimenti di Cinecittà. Fu proprio Federico Fellini, nel suo penultimo film, L’intervista, a ripercorrere quel tragitto autobiografico, filmando alcune scene proprio in quel deposito e riesumando quei vecchi, stridenti vagoni.

Quel film è del 1987, lo stesso anno in cui viene approvata la prima delibera sulla riconversione urbanistica. Che in sostanza disponeva il trasferimento in quegli spazi del vicino mercato rionale, insediato malamente in mezzo a una strada, poco igienico a molto scomodo. Ed è stata proprio questa lodevole previsione il grimaldello che ha permesso, anno dopo anno, decennio dopo decennio, giunta dopo giunta, di consegnare agli interessi privati un preziosissimo fabbricato pubblico: uno di quei rari manufatti storici che avrebbero potuto ospitare ben altre funzioni, culturali, artistiche, sociali. Come peraltro accade in altre metropoli europee, dove le amministrazioni pubbliche non sono certo così servili nei confronti di finanzieri e immobiliaristi.

Altre delibere si sono avvicendate, altri progetti si sono susseguiti, altri sindaci si sono alternati, ma sempre finalizzando l’intervento intorno a questa presunta utilità pubblica. È finita come diversamente sarebbe stato difficile finisse: il mercato dell’Alberone non si trasferirà, resta dov’è. È dunque scomparso anche quel minimo vantaggio pubblico, quell’utile funzione di servizio, quella vaghissima e illusoria ipocrisia con cui per trent’anni l’amministrazione comunale ha motivato (giustificato) il perverso inganno che ha perpetrato ai danni della città.

Si chiama Happio questo nuovo monumento al mercato: un mediocre impasto di inglesismo e romanismo che allude a un’improbabile felicità ma che, al contrario, appare goffo e stucchevole come la gran parte dei tentativi di mistificazione linguistica che ci hanno ormai colonizzato. Sarà un concentrato di attività commerciali, di spazi d’intrattenimento, di uffici, di servizi privati e di tutti i consueti derivati al seguito. Il perfetto modulo speculativo con cui si sviluppa l’odierna gestione urbanistica: un intreccio tra l’immediatezza dell’incasso, cioè il frenetico gettito di scontrini d’acquisto, e il più rilassato ricavato della rendita affittuaria, tanto costante quanto progressivo.

C’è chi impudicamente definisce «rigenerazione urbana», queste colossali operazioni affaristiche. E molte altre se ne annunciano in città, nei vecchi Mercati generali, nell’antico Mattatoio, nel Mercato dei fiori, nel Palazzo degli esami, in altri depositi e magazzini svuotati, nelle aree ferroviarie e nelle Dogane in disuso, nelle caserme.
Del resto, con la crisi dell’edilizia, con milioni di metri cubi residenziali che restano invenduti, questo tipo di riconversioni commerciali diventa l’unico sbocco per un sistema finanziario-immobiliare impigrito e parassitario.

In linea complementare, le amministrazioni locali, ormai dissanguate dai tagli ai bilanci e paralizzate dal patto di stabilità, non trovano di meglio che svendere il proprio patrimonio per compensare i loro deficit. Ed è così che si creano quelle sciagurate condizioni che permettono ai privati di impossessarsi di immobili storici e perfino pregiati, per poi trasformarli in lucrose attività, che certo non appaiono particolarmente utili e, anzi, ricadono pesantemente sul tessuto urbano, appesantendolo ulteriormente.

Insomma, sembra proprio un destino inesorabile vedersi sottrarre dai privati quei beni pubblici che, in quanto pubblici, appartengono a tutti noi. Eppure, un’altra possibilità ci sarebbe. Se solo la politica riacquistasse il suo ruolo progettuale, o più semplicemente accogliesse le esigenze cittadine, e non si limitasse a svolgere le funzioni di ente liquidatore, di facilitatore degli interessi del mercato. Riconvertire e riusare il patrimonio dismesso è sicuramente utile e proficuo: il punto è per farci cosa. E poi, perché privarsene per svenderlo? Non sarebbe meglio utilizzarlo per offrire alla città quel che manca e che sarebbe invece necessario? Servizi sociali, opportunità di lavoro, attività culturali, luoghi di aggregazione e (perché no) quegli alloggi popolari che tanto servirebbero per contrastare l’emergenza abitativa.

A un paio di chilometri da Happio, un altro fabbricato tramviario dismesso svolge un’altra attività. Non si compra niente né ci sono vetrine e plastiche colorate. C’è però una signora eritrea che ti offre il tè alla menta più buono di Roma. È stato occupato qualche anno fa da un gruppo di donne del quartiere ed è diventato un centro d’accoglienza per donne e bambini in difficoltà o che hanno subito violenze. C’è un bel giardino per giocare e stare insieme. D’estate si proiettano film. In una stanza è stata allestita una biblioteca. Il fine-settimana c’è anche un mercatino e si può fare la spesa. C’è poi una sartoria che ricicla vecchi indumenti e che qualcuno si azzarda a definire vintage. Un servizio sociale, insomma. Una di quelle attività pubbliche che, in base a direttive europee e anche per semplice buon senso, dovrebbe sorgere in tutti i quartieri e di cui invece non si vede l’ombra.

Non per facili retoriche né per apparire corrivi a tutti i costi, ma una domanda affiora irresistibilmente. Cosa serve di più alla città: un centro commerciale o un centro anti-violenza?