L’ avevamo lasciato al culmine del suo potere, in quel momento che necessariamente coincide con l’inizio della caduta. In chiusura della prima stagione della serie di Netflix Narcos, il «protagonista» Pablo Escobar – interpretato da Wagner Moura – era infatti appena fuggito da La Catedral, il carcere-villa di lusso che si era fatto costruire dalle autorità colombiane come condizione per la sua «resa», e dal quale aveva continuato a gestire indisturbato il suo impero del narcotraffico.

Laddove la prima stagione ricostruiva i quasi 20 anni dell’ascesa di Escobar, questo secondo capitolo di Narcos ripercorre solo un anno della vita del signore della droga: dal 1992 della sua fuga al dicembre ’93, in cui viene trovato dagli uomini del Search Bloc (la squadra militare dedicata appositamente alla sua cattura) e raggiunto da una pallottola alla testa: non si è mai stabilito se come conseguenza dello scontro a fuoco o in un’esecuzione a sangue freddo . Eppure nei dieci episodi che compongono questa stagione il ritmo si fa più concitato, con meno digressioni dedicate alle vite private dei due agenti americani della Dea – Javier Peña e Steve Murphy – membri della task force che collabora con il governo colombiano allo smantellamento del regno di Pablo.

In campo ci sono infatti nuove forze, si forma un’alleanza anti Escobar: il gruppo che si diede il nome di Los Pepes e che comprendeva il cartello rivale di Cali, la moglie di uno dei «caporali» di Pablo da lui ucciso nella Catedral e una truppa paramilitare sino ad allora impegnata nella lotta ai comunisti delle Farc nelle foreste colombiane.
Un’alleanza su cui non a caso punta il lancio pubblicitario di questa seconda stagione, che offre la possibilità di proseguire la serie oltre il declino dell’impero di Escobar, nel mondo più frammentato ma non meno violento dei narcos a lui succeduti.

La star è però lui, Pablo, sorta di incarnazione demoniaca capace di qualunque nefandezza, catalizzatore del fascino del male. Quello stesso controverso appeal che caratterizza i personaggi televisivi di maggiore successo del momento, e che si cerca di rendere «articolato» soffermandosi a lungo (a volte troppo) sull’amore di Escobar per la sua famiglia, compreso il sofferto rapporto con il padre, un cammeo finale del bravissimo attore cileno Alfredo Castro. Un male che si rispecchia allo stesso tempo in coloro che gli danno la caccia: gli accordi sottobanco della Cia con i gruppi paramilitari, la scelta di avallare metodi violenti per stanare il mostro, il vacillare della democrazia colombiana sotto i colpi inferti dal potere dei drug lords.

Più di tutto però Narcos lavora intorno alle immagini cronachistiche entrate – negli anni ’90 della guerra senza quartiere a Escobar – nell’immaginario collettivo, soprattutto americano: le macerie degli attentati bombaroli di Pablo, i cadaveri vilipesi dei suoi uomini esposti sulla pubblica piazza dai Los Pepes, lo stesso corpo senza vita del «capo dei capi» esibito come un trofeo di caccia dall’agente Murphy e dagli uomini del Search Bloc. La narrativa dietro questi frammenti di realtà viene ricostruita e reimmaginata, compiendo delle scelte interpretative su fatti altrimenti controversi come la stessa morte di Escobar sui tetti di Medellìn. Nel suo affresco del male penetrato a tutti i livelli Narcos prende posizione: la vendetta è solo uno dei tanti frutti del «seme del male» piantato da Escobar.