Esiste ancora il giardino di Colette. Certo un po’ incolto e abbandonato, almeno fino a oggi, ma la magia che sprigiona quell’angolo di Saint-Sauveur in Puisaye è senza pari. Non stiamo parlando di uno dei giardini che Colette possiederà nel corso della sua vita, ma di quello della sua infanzia, il jardin-du-haut e il jardin-du bas, immortalato in uno dei suoi romanzi, La maison de Claudine, sotto il nome di Montigny-en-Fresnois. Era una casa «grande, sormontata da un alto solaio. La forte pendenza della strada aveva costretto stalle e rimesse, pollaio, lavanderia e latteria ad accucciarsi a un livello inferiore, attorno a un cortile chiuso… Il giardino in alto dominava quello in basso, un orticello ben protetto, consacrato alla melanzana e al peperoncino, dove in luglio l’odore del fogliame e del pomodoro si mescolava al profumo dell’albicocca matura. Nel giardino in alto stavano due abeti gemelli, un albero di noce la cui ombra spietata uccideva i fiori, e rose, prati negletti, un pergolato disastrato».
Lì Colette (1873-1954) ha vissuto la sua infanzia e la sua giovinezza fino ai diciassette anni, quando un dissesto economico costrinse la famiglia a trasferirsi a Chatillon-Coligny e la casa venne venduta all’asta. «Mentre assistevo alla partenza della mia piccola scrivania di mogano macchiata di inchiostro, del mio stretto lettino di noce a barchetta e della vecchia credenza normanna che mi serviva da armadio per la biancheria, fui sul punto di avere una crisi di nervi».

L’orto è una giungla

Per Colette è la perdita del suo regno: ci saranno altre case, altri giardini, ma nessuno avrà nella sua vita il posto di Saint-Sauveur.
Lì avvenne il suo apprendistato alla vita e – lo scriverà passati i cinquant’anni – alla scrittura. Perché l’arte di Colette è qualcosa che si nutre di tutti i sensi e da questi estrae i godimenti della vita. Lo fa anche nel giardino di Saint-Sauveur che la madre coltiva come se invece di essere un orticello, un pergolato e un tetto spiovente fosse una «giungla vergine, anche se limitata alla rondine, ai gatti, alle api, alla grande epeira ritta sulla sua ruota di trina inargentata dalla notte». Un giardino che da solo riassume il mondo e la vita. E che è circondato da boschi e stagni che la madre le concede di esplorare in relativa libertà da sola o coi fratelli, salvo poi uscire nel grido serale: «Bambini, dove siete bambini?». Madre non facile quella che mette tutta questa libertà nelle mani di una bimbetta; eppure Colette dice di sentirsi «al piede un filo, di cui l’altro capo si attorciglia e si annoda ai vecchi alberi di noce nel giardino di Montigny». Dalla madre Sido, Colette apprende l’amore per le piante e per gli animali, per la natura e per gli uomini e per i cuccioli di tutte le creature. È un’educazione alla bellezza, dal momento che il massimo premio per la piccola Colette è potersi svegliare alle tre del mattino per assistere allo spettacolo dell’alba.
In altri scritti Colette parlerà dei fiori, del loro significato e delle loro caratteristiche. Ma ne La naissance du jour, in cuirievocherà il giardino della sua infanzia sovrastato e trasfigurato dalla figura materna, non è questione di fiori, quello di cui ci parla Colette è la difficile arte del coltivare, sia che questa abbia come oggetto la terra, sia che invece questa abbia a che fare con la vita sotto forma di amanti o di bambini. Sia che riguardi la difficile arte di restituire in scrittura il senso di una vita. Della sua vita.
Nel 1927 Colette hacinquantaquattro anni. Ha archiviato la febbre dell’amore per Henry de Jouvenel da cui è separata da tempo, ha messo da parte il personaggio di Claudine, cui deve la sua fama di scrittrice, congedandolo con La maison de Claudine (1922) che preannuncia la svolta che sta per imprimere alla sua carriera letteraria. Qualche anno prima è tornata a Saint-Sauveur in compagnia del figliastro Bertrand con cui ha una storia: «Casa e giardino vivono ancora, lo so, ma che importa se la magia li ha abbandonati, se è andato perduto il segreto che apriva – luce, odori, armonie di alberi e uccelli, mormorio di voci umane che la morte ha sospeso – un mondo di cui ho cessato di essere degna?». È tempo per lei di volgersi indietro al giardino della sua infanzia.
Colette si chiude a La Treille muscate, la casa (e ancora un giardino) acquistata vicino Saint-Tropez in Provenza, per lavorare al nuovo romanzo, un libro a incastro nel quale la storia della rinuncia all’amore per il giovane Vial si mischia a ricordi personali, divagazioni, riflessioni che ruotano tutte attorno al giardino di Saint-Sauveur e alla presenza fantasmatica della madre, morta sedici anni prima e al cui funerale Colette non era andata. Rilegge la corrispondenza materna e ne utilizza lunghi brani per il nuovo romanzo che sarà La naissance du jour, ritoccandoli, perfezionandone il senso. Decide addirittura di aprire il romanzo con la lettera (rimaneggiata) in cui Sido declina l’invito a passare alcuni giorni accanto alla figlia per non perdere l’ultima fioritura del suo cactus rosa. È il suggello finale al personaggio di Sido, a cui soltanto adesso può porre la domanda che le sta a cuore: «Guarda, guarda quello che faccio. Vedi quanto vale (…). Scruta, meglio di me, la mia opera (.-..). Affila la tua unghia dura di giardiniera!».
Ma all’interno del monumento letterario eretto alla madre attraverso le opere di questo periodo (La Maison de Claudine del 1922, La naissance du jour pubblicato nel 1928, Sido del 1930) è possibile cogliere un ultimo e sorprendente dono che Colette concede ai suoi lettori, come un frutto tardivo o una lezione suprema. Il giardino di Colette, anzi di Sido, cela come un retrogusto di narcotico che affiora sottile e improvviso nel miele dei ricordi d’infanzia a segnalare la paura di finire risucchiati da quel sogno di grembo assoluto rappresentato dal giardino materno. Come è il caso di suo fratello, Leo, ragazzo invecchiato ma non cresciuto per l’impossibilità di procedere oltre nella propria vita. Colette lo ritrae in un breve schizzo ma è un graffio indelebile di vita non vissuta. Forse qui affondano le radici della distanza che Colette ha messo tra lei e una madre troppo amata. Una freddezza che si riaffaccerà nelle difficoltà del suo rapporto con Bel –Gazou, la sua unica figlia.

Una dimora in restauro

Cercando su internet si trova un breve filmato del 1951 per la regia di Yannick Bellon in cui è la stessa Colette, anziana e immobilizzata a letto, a parlare delle sue case; soprattutto quella di Saint-Sauveur e di Saint-Tropez, di cui si vedono anche alcune immagini. Finalmente nel 2011 la casa natale di Colette è stata acquistata da un fondo denominato La Maison de Colette (http://maisondecolette.fr) che, dopo alcuni lavori di restauro, intende aprire le sue porte al pubblico nel settembre 2015. Con buona pace di Colette che non era tenera verso i troppi visitatori: «Credo che la presenza in gran numero dell’essere umano affatichi le piante. Una mostra di orticoltura langue e muore quasi ogni sera, quando sono venuti in troppi ad ammirarla; dopo la partenza dei miei amici ho trovato il mio giardino stanco. Forse i fiori sono sensibili al suono delle voci. E i miei non sono più abituati di me ai ricevimenti».