A dimostrazione che la post-verità è molto in voga e che, anzi, sorpassa di molto la verità che nasce dalla verifica dei fatti, anche la moda ha al suo interno la propria post-verità. Sarà che come creatività essa ha il dovere di leggere la cultura in cui nasce, ma quanto è successo alla moda negli ultimi anni sembra più una complicità che un adeguamento al fenomeno.

Secondo l’Accademia della Crusca, la post-verità denota, «circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali». Così, la post-moda ha la capacità di orientare il gusto di molti consumatori solo perché si rende più ammiccante ed emotivamente evidente attraverso i media digitali di quanto può fare una moda che è più ricca di proposte nuove verificabili oggettivamente ma che ha in sé la difficoltà di porre, in modo scomodo e dialettico, quelle domande che molti non sono disposti a farsi fare dai vestiti. La post-moda, invece, si presenta ormai da molti anni con delle caratteristiche talmente riconoscibili da essere rassicurante, un concetto che nega il significato stesso della moda che è pur sempre nata per raccontare il moderno che si forma in maniera continua e costante.

La post-moda, invece, è quella moda che è talmente furba che smalta con una vernice luccicante gli elementi della riconoscibilità che perpetua all’infinito. In questa accezione dovrebbe rientrare, per esempio, tutta quella moda citazionista che oggi ha tanto successo sui social network. Tra i maggiori rappresentanti di questa corrente, si può citare Demna Gvasalia che insieme con la sua stylist, Lotta Volkova, ha inventato il marchio Vetȇments che rappresenta il riassunto della moda degli Anni 60-70- 80, messi insieme con la tecnica della destrutturazione che ha carpito lavorando da Margiela. In tre stagioni, il marchio ha avuto un successo post-mediatico talmente ampio (meno grande è stato quello commerciale) che il suo autore è diventato direttore creativo di Balenciaga, dove fa le stesse cose che faceva per il suo marchio. La moda di Gvasalia è copiata da molti altri stilisti ed è osannata sui social: la spiegazione è in un’intervista dove la Volkova dichiara che il loro metodo di lavoro parte dal fascino per gli stereotipi perché attraverso essi: «si possono facilmente correlare le persone a qualcosa di già conosciuto».

E questa non si può definire altrimenti che post-moda, tanto più che dimostra, nello spirito del tempo, di essere più convincente e in voga di quella moda che ricerca il nuovo e che, infatti, oggi c’è poco soprattutto per mancanza di audience. Ma allo stesso fenomeno vanno assegnatiti tutti gli stilisti che dichiarano di ispirarsi alle foto dei consumatori postate su Instagram o chi dichiara di essere diventato stilista grazie al proprio profilo sui social network. Come la post-verità, la post-moda esiste perché ha parecchi mandanti e molti complici. I primi sono i padroni del sistema economico-finanziario che regge il fashion system. I secondi, e forse più colpevoli dei primi, sono i consumatori: come chi non controlla le notizie che legge in Internet, chi subisce il fascino della post-moda è vittima della sua emotività facilmente accattivante. Basterebbe un esercizio di controllo o di memoria, che oggi è reso molto più facile proprio dalla disponibilità del web, per capire che stanno osannando una copia di quel passato che, a loro dire, vorrebbero cancellare per sempre.

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