Un’appassionata cavalcata attraverso i film di Sergio Leone “C’era una volta Sergio Leone e ci sarà sempre” di Italo Moscati è programmato in anteprima al festival Pordenonelegge (17-21 settembre) in collaborazione con Cinemazero, giovedì 18 settembre alle ore 21 (e a seguire Per un pugno di dollari). È un vivido ricordo del regista, perché sottolineato dalle sue stesse parole fuoricampo, raccolte in numerose intervista e talvolta, si intuisce, mentre legge, con impareggiabile pigrizia romana. Con l’incipit che è tutto un programma degli schiavi che fuggono dall’orecchio del colosso di Rodi per proseguire poi con il western («fare un western significa fare qualcosa che non c’è più») fatto di personaggi legati al mito, alla leggenda, con eroi omerici come Agamennone o Achille. Ma anche, confessa, una svolta negli anni di grande crisi del cinema italiano. Clint Eastwood raccontava che il set era così povero che si dovevano portare il cappello e il poncho la sera in albergo, perché se si fossero smarriti non ne avrebbero avuti altri. Che il western non appartenga alla tradizione americana, dice Leone, è data dal fatto che i più grandi registi del genere sono stati austriaci o irlandesi, come Wyler, Zinneman o John Ford. Quindi perché non un italiano? Con quesi personaggi come il buono, il brutto e il cattivo che evocano i soprannomi dei ragazzetti trasteverini (il roscio, il biondo, bellicapelli…). Con la rivoluzione di Giù la testa, «un film picaresco», una specie di riedizione di Viva Villa, è come se si fosse affacciato in una tematica politica in cui non era mai entrato, nel grande clamore collettivo degli anni ’60.
Chiave di volta di un’epoca, crocevia di immaginario internazionale da aver innescato reazioni a catena anche nel cinema americano e orientale, ognuno ha dei suoi film un ricordo diverso e associazioni legate all’epoca in cui sono stati visti, un po’ come il ricordo dei classici, film con il ritmo dell’epos come scriveva Bertolucci. Il film è strettamente collegato al libro di Italo Moscati dedicato al regista (ed. Lindau) rieditato quest’anno di cui parlerà in un incontro (alle ore 16.30). «Quando il cinema era grande» è il sottotitolo del libro, rievocativo di un’epoca. Si ripercorre la storia di Sergio Leone collegata agli avvenimenti storici e cinematografici, in alcuni casi piuttosto sconosciuti. Si sapeva che il suo soprannome Bob Robertson era unomaggio al nome del padre anche lui regista, Roberto Roberti, ma il libro inizia appunto con il racconto esteso della storia di questo artista attivo all’epoca del muto che come una tela che inizia a tessersi crea anche la base solida del futuro cineasta. L’epoca del muto che appassiona solo gli addetti ai lavori, è in realtà un periodo di scoperte, di viaggio al futuro e soprattutto di enormi successi internazionali per l’Italia: Vincenzo Leone in arte Roberto Roberti di origini irpine laureato in giurisprudenza (come poi il figlio), e la moglie, attrice nota con il nome d’arte di Bice Walerian, Edwige Valcarenghi di origine friulana, furono protagonisti della scena. Si sposarono nel 1914, l’anno di Cabiria. Con il marito interpretò film come la vampira indiana, La torre dell’espiazione, la piccola detective. La guerra fermò l’attività di attrice della Walerian, ma ancora di più la presenza di Francesca Bertini che già aveva interpretato Assunta Spina nel 1915, e cominciò a essere diretta (lei sosteneva di dirigere se stessa) «con grazia e pazienza» da Roberti. Affascinante racconto è tutto il preludio alla celebrità di Sergio Leone, figlio unico di genitori sempre assenti sul set, bambino solitario, ragazzo di Viale Glorioso – non ne fece mai il film che avrebbe voluto fare – a Trastevere, poi un lunghissimo apprendistato che durò dal 1946 al ’60, aiuto regista del padre in Il folle di Marechiaro (’46), poi come assistente in Ladri di biciclette, per Gallone, Blasetti, Camerini, Soldati, e soprattutto Mario Bonnard che lo adottò in qualche modo, ma anche per gli americani sul Tevere – «io l’inglese più che parlarlo lo intuisco», diceva – Robert Wise nel celebre Elana di Troia, Mervyn Le Roy in Quo Vadis?, Fred Zinnemann in Storia di una monaca, William Wyler in Ben Hur, Aldrich in Sodoma e Gomorra – che gli americani pensavano fosse un’unica città. Di che farsi le ossa con tecnici e maestranze, per più di quindici anni. Ne seguiamo il passaggio dal mitologico al western, mentre uno si innesta nell’altro: dalla scrittura di Romolo e Remo e Glii Ultimi giorni di Pompei al primo film realizzato come regista Il Colosso di Rodi (’60) a Per un pugno di dollari (’64) e via via gli altri, un pugno di film in attesa di un altro sogno da inseguire che si era già formato nella sua mente ma che non fece in tempo a realizzare. Un gigante più giovane dell’età che dimostrava, eravamo insieme in qualche commissione ministeriale (tanto per continuare il tono a volte autobiografico del libro di Moscati) acuto, intuitivo e sornione e io gli chiedevo notizie del suo Leningrado, di cui si sapeva, ma che non avanzava, un assedio che non ha mai avuto fortuna.