Leggo questo libro che si ispira al terremoto dell’Aquila con negli occhi le recenti scene di distruzione e spaesamento di un evento sismico non dissimile per luoghi e intensità, e rivivendo quello del 1980 in Irpinia, di cui ho condiviso paure, fuga, tremori della terra e del corpo – le immagini ormai sbiadite, il ricordo della metamorfosi corporea ancora vivo – in una catena di tempi fuori dal tempo. Terra e parole. Donne/scrittura/paesaggi (a cura di Roberta Falcone e Serena Guarracino, ebook della collana SIL Mnemosine diretta da Laura Fortini e Giuliana Misserville) è una raccolta di saggi, poesie, racconti, interviste e dialoghi tra discipline, in un crocevia tra scrittura e immagini, tra sguardo storico e teorico, scientifico e immaginativo.

Partendo dall’Aquila, il libro intende essere un «laboratorio di narrazioni resistenti», come scrive Guarracino nell’introduzione, e s’inserisce in una ricca tessitura di genealogie femminili e femministe, filosofiche e letterarie (da Arendt, Weil, Wolf, Zambrano e Haraway a Ortese, Lispector, Djebar, Ginsburg, Bonanni e Amiry tra tante altre), in una continuità che le riporta al momento attuale del nostro pensiero e storia. La scrittrice canadese Anne Michaels è presenza privilegiata tra le ispiratrici, e appare nella raccolta con il suo Corpi, memorie, linguaggi per la ricostruzione, oltre che in saggi sulle sue opere.

Il testo digitale, anche grazie alle appendici curate da Guarracino, permette un percorso interattivo tra testi e immagini, incoraggiando intrecci, ritorni, salti, associazioni, meandri e percorsi che si fanno strada tra le rovine, le macerie, le pietre per leggervi un senso, per ricordare, ritrovare radici, aprire spazi possibili al futuro, come nei mondi nuovi di tanta fantascienza femminile da Octavia Butler a Ursula Le Guin, o quelli evocati dalla critica ecofemminista da Haraway a Braidotti.

Il tempo delle cicatrici

Il legame profondo tra donna e terra, pur essendo fondato su comune subalternità più che su affinità naturale, come nota Guarracino, in vari interventi viene visto in rapporto al corpo delle donne. Dolore e immagini corporee sono ricorrenti: in gaza di Suhair Hammad, Marta Cariello legge «una grammatica del dolore familiare e collettivo, del disastro che si fa racconto straripante e che termina, non a caso, trafiggente e universale, dentro al corpo delle donne». Igiaba Scego, in dialogo con Laura Fortini, si chiede: «cosa attraversa il corpo di una donna quando la violenza l’attraversa… Il corpo si salva? Muore? Cosa fa? Quali sono le sue tattiche? Come sopravvive? Come vive?» e descrive la Somalia come corpo violato e colonizzato.
Il vocabolario del trauma – guasto, danno, perdita, ferita, cicatrice – percorre questi scritti.

L’evento traumatico azzera il tempo, è un evento passato sempre presente (Klein), tra verità e finzione emotiva, un eccesso che porta il reale a un punto incandescente, come nota Farnetti in «Guasto celeste», che unisce nel titolo Ortese e Wolf. Non è accadimento del tempo lineare poiché non smette mai di accadere e si apre alla comprensione nel lavoro di scomposizione e ri-composizione e nel linguaggio dei simboli verbali. Paola Bono descrive la scena di devastazione nei drammi di Caryl Churchill come una distopia senza riparo, che unisce animali, vegetali e umani in un nodo di distruzione. Le cicatrici appaiono nella performance di Clara Cot che opera una ricucitura simbolica delle crepe del terremoto nella Valle del Belice, in una delle opere d’arte lì fiorite, come testimonianza dell’immaginario tra le rovine, nelle parole di Gisella Modica.

La tabula rasa che succede alla catastrofe, al cataclisma, appare nella descrizione dei paesaggi desolati e desolanti, delle geografie sconvolte e dislocate, in cui Anne Michaels, in La cripta d’inverno, inscrive la trasformazione senza rimedio della vallata del Nilo, e la ricostruzione «alla lettera» del ghetto di Varsavia. O ancora il muro palestinese rievocato da Nadia Setti in «Tre scosse», e da Marta Cariello che lo associa ai check points che frantumano lo spazio in Palestina. La Buenos Aires degli emigrati italiani, descritta da Pariani, anticipa i ghetti della migrazione odierna; gli spazi urbani in decadenza, o i luoghi abbandonati come quelli minerari sardi, nelle parole di una minatora che descrive una mobilitazione ormai dimenticata, appaiono nel cinema del reale di Vallorani. Nella devastazione del post-terremoto, all’Aquila si affiancano Gibellina, la zona rossa di Mirandola in Emilia, Fukushima con il suo strascico nucleare.

Una geografia emotiva

Il volume si era aperto con lo sguardo critico sulla geografia ufficiale nelle «mappe strappate» di Lina Calandra, che esorta a decolonizzare la geografia e i suoi paradigmi scientifici; quelle sognate di Falcone, che si dipanano attraverso una rassegna di visioni storiche e postcoloniali alla ricerca di spazialità complesse e contraddittorie; la geografia emotiva e sensoriale delle scrittrici italiane della migrazione in bilico tra due luoghi e due spazi, l’uno fantasma dell’altro.
«I luoghi non sono mai luoghi casuali, ma fanno parte di una sorta di geografia emotiva… raccontano le storie nascoste delle nazioni o delle persone», dice Scego. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani sottolinea che il paesaggio geografico che si ritrova nei suoi scritti e acquerelli è inscindibile dal paesaggio linguistico che ne restituisca il senso. «Per raccontare persone e paesaggi degradati / dimenticati / estranei alla quotidianità ho sempre cercato la lingua adatta… per esprimere le emozioni che quei luoghi e quelle figure mi suscitavano» (Pariani).
Le pietre qui diventano archivio rigenerativo che permette al presente di muoversi verso il futuro; le parole il mezzo per leggerlo attraverso la poesia e l’arte: «le pietre contengono storie immemorabili, cariche di magia, sono le vere immagini del mondo» (Maria Lai). L’archivio è vivente e circolare, non chiuso negli spazi museali, è produzione di tracce che solo nella lettura del dopo assumono un significato, come la memoria che non è solo riproduzione. Paola Di Cori alle rovine mute oppone le pietre loquaci, ed estende la nozione di archivio alle storie del femminismo, invitando a lavorare, accanto alle cose che rimangono, sui resti, sui margini, gli scarti.

All’archivio torna Nicoletta Vallorani con il paesaggio di Srebrenica: «molte donne di Srebrenica cercano, insieme a Munira, frammenti di scheletro, ossa sepolte in campi di patate, tracce dimenticate dai carnefici». Marta Cariello descrive la febbre d’archivio della Palestina tesa a ricostruire un’identità negata che rischia la scomparsa. Le parole, che assicurano la sopravvivenza, sono anche quelle della narrativa orale palestinese, che per i cantastorieusa la stessa radice verbale di «abbeverarsi, dare da bere» e anche dello «scorrere dell’acqua» e quindi «trasmettere, tramandare».

La volontà di resistenza

L’incantamento della parola scritta e orale riafferma la necessità del racconto, filo tenace che indica in queste pagine l’uscita dall’evento traumatico. La libertà e la resistenza nascono sulla scia della nostalgia di Michaels, una mancanza che si fa desiderio, tensione verso l’Altro; in La cripta d’inverno, il magnifico giardino di fiori e animali di plastica sulla tomba di un bambino è altrettanto vero di uno naturale perché «testimone di un atto di amore che sa contenere anche il dolore». Mazzanti vede nel libro, che lei ha subito collegato all’Aquila, «uno strumento preciso e delicato per interrogarmi sul trauma della perdita e sui modi individuali e collettivi per andare oltre». Alessandra Pigliaru nella zona liminale descritta da Ida Travi legge «una possibilità di felicità» per i sopravvissuti alla catastrofe; per Farnetti la rappresentazione solidale del dolore, del guasto, del danno apre a rigenerazione e trasformazione.

Il riattraversamento di un vissuto «opaco e insieme incandescente» è necessario per «estrarre dalle cose passate il loro senso, per trasformare l’accaduto in libertà» (María Zambrano). I resti di Di Cori «indicano una possibile apertura verso uno spazio di resistenza entro cui agire» e i paesaggi violati di Laura Tarantino e di altri saggi sono vie «di ricostruzione di vita e immaginario». La «funzione guerriera» di Angela Putino viene evocata ripetutamente, dalla rivolta delle donne alla privazione dell’acqua nella parabola narrativa, tra prosa e drammaturgia, di Alina Narciso; o quella delle libere donne del comitato di Cornigliano, delle mamme della terra dei fuochi e di altre militanti attive nella resistenza a offese ecorruzione del dopo terremoto.

In soccorso vengono le «strutture di luce» di Annamaria Ortese («gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra»), o i versi di Adrienne Rich che «si cala nel relitto», nella rovina, in quel che rimane a cercare le tracce di ciò che va salvato.

 

Scheda

«Terra e parole» è il frutto del Convegno nazionale della Società Italiana delle Letterate «Terra e parole: donne riscrivono paesaggi violati» che, con la collaborazione di TerreMutate, si è tenuto nella città dell’Aquila dall’8 al 10 novembre 2013; ed è il primo volume della neonata collana editoriale Mnemosine della Sil, diretta da Laura Fortini e Giuliana Misserville e pubblicata dalla casa editrice digitale femminista Ebook @ Women (http://ebook.women.it). La collana intende mettere in luce il doppio accento, i diversi posizionamenti della critica letteraria femminista prodotta dalla Sil nei venti anni della sua attività, dedicati a riattraversare e ridefinire la tradizione culturale, per andare oltre il canone, oltre le discipline, verso altre forme della conoscenza, altri mondi possibili.