A quattordici anni dall’inizio di una guerra che sembra non finire mai, le rappresentazioni dell’Afghanistan restano limitate e riduttive: le prospettive visive e narrative continuano ad essere legate a stereotipi senza tempo, che reificano immagini prefabbricate. Le donne in burqa e l’indulgere sull’idea di uno status di vittime senza speranza sono l’esempio più evidente di questa tendenza generalizzata.
Riflettendo sull’immagine dell’Afghanistan che i media hanno disegnato nell’ultimo decennio appare evidente quanto poco si sia compreso delle reali dinamiche interne di questo paese e di come si sia invece preferito confermare ciò che già si sapeva, rifugiandosi spesso nei luoghi comuni. È il sintomo di una sorta di malattia orientalista, che genera un discorso che si auto-alimenta e auto-legittima, producendo le evidenze che servono a sostenerlo, così da mantenere margini circoscritti di discussione critica.
Bisogna provare a riflettere su come viene rappresentato l’Afghanistan e, in particolare, sulle modalità con cui la produzione culturale viene finanziata e raccontata. Le interpretazioni sulla natura della produzione culturale sono spesso legate a questioni di linguaggio e accessibilità e rinforzano la visione Kabul-centrica dell’Afghanistan e una percezione per lo più urbana, che limita la prospettiva di comprensione considerando solo quello che viene prodotto dalle élite che parlano inglese.

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“Defendin’ the Good Ol’ South” by Aman Mojadidi

Un circolo vizioso
Con l’artista afghano-americano Aman Mojadidi ci siamo spesso domandati cosa sarebbe successo quando il denaro internazionale avesse smesso di sostenere le attività culturali in Afghanistan. In una fase di crisi economica – quando le emergenze sono molte e le risorse limitate – la cultura scivola in fondo alla lista delle priorità. Guardando agli ultimi dieci anni, ci si accorge del cambio di direzione delle organizzazioni internazionali rispetto al sostegno delle arti e della cultura. Secondo Mojadidi, dieci anni fa l’arte e la cultura venivano utilizzate dai finanziatori in modo strumentale per instillare nel paese un’idea di modernità.
Intorno al 2010, a Kabul gli eventi culturali «contemporanei» si sono moltiplicati, sostenuti in modo significativo proprio da finanziamenti stranieri. In un paese dove più della metà della popolazione è al di sotto dei 25 anni, i giovani sono stati al centro di ogni iniziativa. Va tenuto conto però che i giovani coinvolti e raggiungibili dalle organizzazioni internazionali erano solamente quelli che abitavano nelle città, istruiti e con una buona padronanza della lingua inglese.
Nel giro di pochi anni, a Kabul ogni settimana si poteva partecipare a festival di musica heavy metal, eventi di street art o laboratori di graffiti sostenuti da contributi economici di centinaia di migliaia di dollari. Tutto ciò si è rivelato una presenza evanescente: le promesse di trasformazione sociale radicale sono durate solo finché è rimasto vivo l’interesse dei media.

In quel periodo, oltretutto, i titoli dei giornali spesso cominciavano con la parola «nonostante» – Nonostante i Talebani, la moda fiorisce nell’Afghanistan tormentato dalla guerra… – e articoli e documentari finivano per inquadrare ogni evento culturale in opposizione agli anni bui del regime dei Talebani. La narrazione si svolgeva in termini di antagonismo e opposizione, ancor di più se erano coinvolte anche le donne. Era un po’ come se l’Afghanistan non avesse prodotto niente di culturale prima dell’invasione occidentale. Ed è così che in quegli anni il paese – in realtà Kabul – ha prodotto una serie di «primogeniture»: la prima graffitista donna, la prima rapper, il primo gruppo rock, il primo collettivo di registi…
L’insistenza sulla novità, sui giovani e la modernizzazione, tuttavia, non ha comportato il cambiamento promesso, innescando invece tensioni culturali e generazionali. Molti temevano una sorta di invasione culturale affermando che queste iniziative avrebbero occidentalizzato idee e abitudini. Paure infondate, visto che nessuna di tali manifestazioni ha avuto radici sufficientemente profonde da produrre un impatto reale e, ancor meno, da minacciare una possibile rottura all’interno della società fra modernità e tradizione.

Per Mojadidi ciò era assolutamente chiaro: «C’è un’analogia che trovo utile: quella della terra asciutta su cui viene versato all’improvviso un secchio d’acqua; il secchio d’acqua rappresenta la modernizzazione, l’inglese, le attività culturali, l’arte, la musica, i soldi… l’acqua si spande sulla superficie, ma non penetra ed evapora prima di aver ottenuto qualsiasi effetto benefico: questo è ciò che è successo in Afghanistan nell’ultimo decennio».

In generale, gli eventi culturali finanziati con capitale straniero sono permeati dalla logica economica che mette al centro il capacity building e richiede obiettivi quantificabili da identificare in anticipo e con un impatto misurabile. Questo atteggiamento, combinato con programmi di sviluppo stilati per lo più fuori dell’Afghanistan, determina priorità di finanziamento che si concentrano sulla fase di start-up dei progetti e non sul lavoro – certo meno gratificante – di consolidamento. Ciò ha generato un circolo vizioso di inizi senza fine, essendo più facile cominciare qualcosa di nuovo piuttosto che renderlo sostenibile.
Durante l’ultima fase del ritiro della maggior parte delle truppe straniere, è avvenuto un cambiamento nelle strategie di destinazione delle risorse. Con l’avvicinarsi del 2014 (fine della missione Isaf-Nato, ndr), le predizioni di instabilità avevano fatto da deterrente per i progetti di lungo periodo e le organizzazioni internazionali sembravano voler strumentalizzare le arti e la cultura per promuovere messaggi sociali e politici vicini agli interessi dei propri governi di appartenenza. Questi messaggi, infusi di propaganda sottile ma insidiosa, intendevano per lo più dimostrare i grandi successi ottenuti con l’occupazione dell’Afghanistan.

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Graffito di Shamsia Hassani

Burqa e bombe
Le ambasciate straniere e le agenzie dell’Onu avevano cominciato a incentivare la produzione di «arte che comunica un messaggio». I «termini di riferimento» erano spesso così riduttivi da lasciare poco margine all’espressione creativa spontanea. Mentre diventava quasi impossibile trovare soldi per organizzare una «generica» mostra d’arte, i finanziamenti erano invece facilmente disponibili se la rassegna includeva giovani donne che studiavano in una scuola d’arte tutta al femminile e dipingevano (o piuttosto illustravano) un tema specifico. Una quantità senza fine di donne in burqa aveva cominciato ad apparire sulle tele, dipinte con colori acrilici cinesi di qualità scadente e, per lo più, su uno sfondo a grandi macchie rosse a simboleggiare il sangue e la violenza. Le mostre tematiche si erano moltiplicate all’improvviso così come gli eventi culturali commissionati per combattere la corruzione, celebrare l’ambiente o la giornata internazionale della pace, promuovere l’educazione delle bambine o combattere la violenza contro le donne. Questo genere di atteggiamento era talmente pervasivo da diventare pericolosamente inconscio.

Il deterioramento della situazione ha innescato paure ancora maggiori. Diversi attacchi contro gli stranieri nel corso dell’ultimo anno e mezzo hanno reso le organizzazioni internazionali più caute e meno interessate a finanziare eventi pubblici che potrebbero trasformarsi in bersagli. Quella che veniva definita Kabubble – la bolla di Kabul – è scoppiata, ma paradossalmente il cambiamento delle contingenze politiche ha avuto conseguenze in qualche modo positive sulla produzione culturale.

La politica dei piccoli passi
La mancanza di finanziamenti internazionali indiscriminati ha, non volendo, dato il via a una fase di consolidamento. Molto dell’entusiasmo che circondava la cosiddetta «scena culturale di Kabul» è svanito e molti dei protagonisti di quel momento storico hanno lasciato il paese. Ma quello che rimane oggi sono piccoli semi che cercano di costruire delle radici forti, adottando la politica dei piccoli passi e spesso evitando intenzionalmente l’attenzione dei media per concentrarsi sulle proprie attività e sulla propria ragion d’essere.
Svariati sono gli esempi di iniziative indipendenti che investono soldi, tempo e talenti per fare arte in maniera autonoma: la natura delle iniziative è diversa, ma le battaglie sono comuni. Musicisti, poeti e artisti si stanno dedicando alla costruzione di un linguaggio che rifletta i propri pensieri e le proprie idee, un linguaggio propositivo e non solo una risposta alle priorità imposte dall’esterno. Allo stesso tempo, visto che la competizione per accedere ai finanziamenti è svanita, quello che sta emergendo è un rinnovato senso di collaborazione che cresce e si sviluppa con i suoi tempi. Piccoli avvenimenti prendono forma e nuovi spazi culturali vengono reinventati.

Il giornalista Mujib Mashal, commentando tali cambiamenti, ha sostenuto che la poesia ha da sempre incarnato questo genere di atteggiamento. «C’è una forma d’arte che credo abbia subito meno l’influenza dell’occidente: la poesia. In parte forse perché non è stata commercializzata e ’progettizzata’ come altre forme d’arte. È rimasta un’espressione che viene dal cuore, condivisa in piccoli gruppi e non finanziata, proprio come nel passato. Allo stesso tempo, nuove piattaforme come Facebook hanno aiutato i poeti locali a raggiungere un’audience più ampia. I poeti sono forse i soli artisti che non mi hanno mai detto: ’ho mandato una proposta a questa Ong e aspetto che arrivino i soldi prima di mettermi a lavorare’».

 

SCHEDA

Dopo quattordici anni le truppe occidentali se ne vanno dall’Afghanistan. Che paese lasciano? Intorno a questo interrogativo muove l’incontro «Afghanistan. Invaso e abbandonato», che si terrà oggi a Ferrara nell’ambito del festival della rivista Internazionale. A discuterne, sollecitati dalla giornalista Junko Terao, editor per la sezione Asia della rivista diretta da Giovanni De Mauro, tre ospiti: il fotogiornalista olandese Joël van Houdt, classe 1981, che ha seguito l’Afghanistan per cinque anni, prima di trasferirsi in Ucraina; Nargis Nehan, fondatrice e direttrice della organizzazione non governativa afghana Equality for Peace and Democracy, con alle spalle importanti incarichi istituzionali e una stretta collaborazione con l’attuale presidente Ashraf Ghani; Mujib Mashal, tra i migliori giornalisti afghani della nuova generazione, autore di importanti inchieste e reportage narrativi, tra cui un notevole ritratto dell’ex presidente Karzai pubblicato su «The Atlantic» nel 2014. Quel ritratto era accompagnato e rafforzato dalle foto dell’italiano Lorenzo Tugnoli. Una lunga frequentazione con il paese centroasiatico, passo lungo e passione autentica, Tugnoli ha realizzato insieme a Francesca Recchia (vedi l’articolo qui accanto) – ricercatrice indipendente interessata alla dimensione geopolitica dei processi culturali – un libro prezioso, in edizione limitata: «The Little Book of Kabul», 20 storie, 47 foto in bianco e nero, una lenta immersione nel panorama culturale della Kabul post-talebana, dalla poesia alla musica, dalle arti visive al teatro. Un itinerario, intimo e consapevole, dentro le contraddizioni dei tanti gruppi che, in ambiti diversi, provano a muoversi tra dipendenza dai finanziamenti degli stranieri e ricerca di autonomia. Francesca Recchia e Lorenzo Tugnoli non offrono ricette. Suggeriscono percorsi di lettura e di approfondimento. E ci ricordano come in guerra anche la cultura diventi un’arma di propaganda. Da usare – e interpretare – con cautela. (giuliano battiston)