Italia, Francia, Finlandia, Norvegia, Germania, Portogallo, Slovenia, Tunisia … Il nuovo film di Michael Moore, Where to Invade Next ha la scala di un gran tour ottocentesco e, con il regista di Flint spesso inquadrato sulla prua di una nave, avvinghiato a una bandiera a stelle e strisce, riporta alla memoria uno dei capolavori di Mark Twain, Innocents Abroad, or The New Pilgrim’s Progress (1869). Solo che, diversamente dal libro di Twain, l’oggetto della satira di Moore, non sono i paesi e gli abitanti del Vecchio Mondo, bensì gli Usa.

«Volevo raccontare una storia sull’America senza girare un solo fotogramma in America», ha spiegato Moore nella conferenza stampa che ha seguito la proiezione al New York Film Festival. «E, come dico anche nel film, sono andato in tutti questi paesi diversi per raccogliere i fiori, non le foglie secche».

Otto settimane di ferie pagate dal datore di lavoro in Italia, mense scolastiche con diete da cordon bleu in Francia, università gratuita (anche per gli stranieri) in Slovenia, fabbriche che non ti fanno lavorare più di 36 ore alla settimane in Germania, una guerra alla droga senza arresti in Portogallo e i consigli d’amministrazione delle aziende islandesi in cui è obbligatoria la presenza di un 40% di donne, sono alcuni dei «fiori» che Moore raccoglie in questo suo retrofitting della spedizione bellica americana all’estero. La sua è infatti una missione per conto del Pentagono.

Non vincete una guerra dal 1945, dice all’inizio del film a un tavolo di generali dalle facce costernate. Lasciatemi provare a invadere dei paesi stranieri da solo, e a portare in Usa le loro idee migliori. Senza sparare un colpo, o festeggiare un banchetto nuziale a forza di droni.

Moore aveva già usato l’Europa e il Canada, come termini di paragone/paradosso positivi in Sicko e in Bowling for Columbine.

«In realtà le radici di questo film stanno in un viaggio che ho fatto a diciannove anni: avevo appena lasciato l’università, ed ero andato in paio di mesi in Europa, In Svezia, mi sono rotto un dito del piede e sono andato all’ospedale. Quando ho chiesto di pagare e mi hanno detto che era gratis sono svenuto. Non avevo mai sentito una cosa del genere. E, in tutta Europa, continuavo a incappare in situazioni simili. Ma questa è così una buona idea! Perché non importarla anche da noi? mi chiedevo», ha raccontato il regista.

E l’Europa illuminata dello stato sociale che vediamo nel suo film è sicuramente più simile a quella di quel viaggio di gioventù che a quella di adesso.

Non a caso, a beneficio dei giornalisti stranieri presenti, Moore ha precisato: «Sono sicuro che i finlandesi, i tedeschi, i francesi, gli italiani hanno problemi. Come ogni Paese. Ma non era mia intenzione prendere in giro nessuno o dire loro cosa fare. Non vivo in Europa e quindi non conosco le situazioni specifiche e le difficoltà che sta attraversando Questo è un film sul mio Paese».

É anche un film più dolce, meno frontale rispetto alla maggior parte dei suoi lavori precedenti, che ricorda un po’ il benevolo pamphlettismo peripatetico della sua serie televisiva, Tv Nation. Le recensioni hanno infatti già definito Where To Invade Next, un film «happy», felice, e suggerito che Michael Moore sia diventato «buono».

«Ho cercato di trovare un tono meno arrabbiato», concede lui con cautela. «O forse ho semplicemente trovato un modo più sovversivo di raccontare la mia rabbia nei confronti di certe cose che stanno succedendo da noi».

«Non sono un cinico. Anzi, abitualmente sono un ottimista. Certo, poi arriva una cosa come quella che e successa ieri, in Oregon (la sparatoria nel college, ndr) Cosa si può fare? Devo dire che nel suo discorso Obama è stato magnifico. E, sulla questione del controllo delle armi sta lottando, centimetro per centimetro, per portarci al giusto obbiettivo Spero che ce la faccia, visto che gli rimane solo un anno».

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«Nel film – continua Moore – non voglio fare sembrare le cose troppo semplici. Ma mi piace vivere in questo paese, in Michigan, o a New York. E comunque, due anni fa, nessuno avrebbe mai immaginato che quarantuno stati avrebbero sanzionato nella loro costituzione il matrimonio gay. Questo per dire che le cose succedono. A un certo punto c’è qualcosa che scatta, e chi comanda capisce che è ora di levarsi di mezzo».

Cosa «invaderebbe» dell’America per esportarlo all’estero?

«Innanzitutto il rock ‘n roll e l’hip hop. Siamo ancora i migliori. Non importa quanto ci provi la Francia, proprio non ce la fanno. Mi piace anche la scelta infinita di cereali da colazione, che manda in crisi Jeremy Renner al supermercato alla fine di The Hurt Locker. Politicamente parlando, abbiamo eletto Barack Obama invece di John McCain, e quello ci ha evitato problemi enormi. E francamente non so quale dei Paesi europei che ho visitato per questo film avrebbe eletto un presidente di discendenza africana».

Sul circo politico elettorale Moore ha una teoria: «I candidati repubblicani sono l’ultima cosa di cui bisogna preoccuparsi. Preoccupatevi dell’altra parte, in cui ci sono anch’io. Il nostro problema è che il giorno delle elezioni rimaniamo a casa. Siamo inaffidabili. Alle ultime elezioni abbiamo perso il Congresso perché non siamo andati a votare. È l’unico modo di far vincere gli altri. Oggi il 79% degli Stati Uniti è composto di donne, african american o giovani tra i diciotto e i trent’anni. Sono questi i blocchi da conquistare per essere eletti. Donald Trump non ha una chance. Tre settimane fa sono cominciate le scuole, e per la prima volta la maggioranza dei bambini iscritti all’asilo non è fatta di bianchi. Quella è la nostra America. Il paese di cui parla il GOP è fatto di uomini bianchi, arrabbiati, ed è un paese che sta morendo. Come si può dire che hai il diritto di regolamentare quello che succede nell’utero di una donna ma non l’uso delle armi? Viene da suggerire che il posto migliore per mettere un’arma sia l’utero di una donna così almeno il Congresso repubblicano può fare una legge».

Moore non cita Hillary Clinton ma la coda del suo film è dedicata proprio alle donne.

«In Islanda il 40% del consiglio di amministrazione di un’azienda deve essere composto da donne, in Germania il 30%. Nella mia qualità di politologo amatore ho notato che la differenza si vede in paesi dove le donne hanno potere reale, non finto come quello che c’è da noi in cui abbiamo solo un 20% di donne al Congresso, nonostante rappresentino il 52% della popolazione».