Sono almeno 52 i morti – tra cui sette civili e dieci militari – negli scontri tra esercito tunisino e miliziani dello Stato islamico a Ben Guerdane al confine tra Tunisia e Libia. Il presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha condannato l’attacco «senza precedenti» denunciando la volontà dei jihadisti di «proclamare» la nascita di «una nuova provincia» del Califfato. La città tunisina si trova ad appena 160 km dalla provincia libica di Sabratha. Le autorità tunisine hanno imposto il coprifuoco notturno e chiuso i valichi di Ras Jadir. Potrebbe trattarsi di una vendetta di Isis, dopo i raid degli Stati uniti contro Sabratha del 19 febbraio scorso. L’attacco ha messo in crisi anche la capacità del governo di Tunisi di controllare i propri confini, porosi al passaggio dei jihadisti. Un attacco simile aveva avuto luogo sempre a Ben Guerdane contemporaneamente al ritrovamento dei cadaveri di due dei quattro ostaggi italiani, Salvatore Failla e Fausto Piano, le cui salme, ritrovate il 3 marzo scorso, dovrebbero rientrare oggi.

E così, a quasi tre mesi dall’annuncio degli accordi di Skhirat tra le fazioni libiche, il governo di unità nazionale di Fayez el-Sarraj appare sempre più lontano. Da una parte, il premier di Tripoli, Khalifa al-Gweil, ha proceduto con l’arresto di tre membri del comitato di Sicurezza (Tsc), tra i 18 incaricati di procedere con la formazione del governo di unità nazionale, in seguito rilasciati. Già in precedenza Gweil aveva tuonato contro qualsiasi esponente del Tsc che mettesse piede in Tripolitania. Anche l’inviato dell’Onu in Libia, Martin Kobler, era intervenuto per chiedere il rilascio degli arrestati e perché si proceda con le votazioni che diano legittimità al nuovo governo unitario che per ora resta solo sulla carta. D’altra parte, il parlamento della Cirenaica, con sede a Tobruk, continua a rimandare la discussione sul governo unitario, in particolare dopo l’ennesima offensiva per sottrarre Bengasi dalle mani dei jihadisti di Ansar al-Sharia. La speranza del generale Khalifa Haftar è sempre quella di controllare tutta la Libia grazie al sostegno dell’Egitto.

Eppure sembra allontanarsi l’ipotesi che il governo italiano intervenga, dopo le pressioni esercitate da Washington e le dichiarazioni del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sul possibile invio di 5mila uomini in Libia. «Renzi converge completamente con Abdel Fattah al-Sisi. Anche il presidente egiziano è contrario all’ipotesi di un intervento internazionale», ha spiegato al manifesto Mattia Toaldo, analista de European Council on Foreign Relations.

La strategia di al-Sisi, che ieri ha discusso in una conversazione telefonica con il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe di allontanare il più possibile sia la formazione di un governo di unità nazionale sia un intervento internazionale che tengano a freno le mire del Cairo sulla già esistente zona cuscinetto egiziana in Cirenaica che va dal confine fino a Ajdabyia. Questa strategia ha come obiettivo quello di logorare le milizie Fajr (Alba) e di mettere in un angolo gli esponenti della Fratellanza musulmana libica che le sostengono. E così Putin e al-Sisi hanno confermato l’intenzione di proseguire nella loro lotta al terrorismo «non solo in Siria» ma anche «in Libia e Yemen».

L’attendismo italiano ma anche il doppio gioco francese non fanno che rafforzare il debole esecutivo di Tobruk. Se Parigi non ha mai nascosto le sue mire di controllo sul deserto del Fezzan, continua anche a sostenere i militari della Cirenaica in una fase in cui la Gran Bretagna di David Cameron sembra più impegnata a risolvere beghe interne. Questo atteggiamento rende anche il governo di Tripoli, appoggiato dal Qatar, sempre più in bilico e lo costringe a manovre per accreditarsi come interlocutore credibile. «Non ci servono soldati ma armi, munizioni e sostegno logistico», ha chiesto ieri il vice-ministro di Tripoli, Ahmed Amhimid al-Hafar, per incassare subito il successo della liberazione degli italiani rapiti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno.

Anche l’uccisione degli altri due ostaggi italiani potrebbe iscriversi in questa logica di scontro politico tra le milizie di Sabratha per accreditarsi agli occhi della comunità internazionale. Sembra sempre più possibile che i due italiani siano stati uccisi da una milizia inesperta di Sabratha, città dove erano detenuti, che potrebbe averli scambiati come foreign fighters. «Tutte le milizie locali vogliono dimostrare agli Stati uniti di voler combattere Isis pur di accreditarsi come i «peshmerga libici», ha concluso Toaldo.

Infine, gli abitanti di Alasaba, 100 km a sud di Tripoli, hanno chiuso la via di collegamento con la capitale libica dopo l’ennesimo rapimento, che si sarebbe concluso con il rilascio di Salem Allibad grazie al pagamento di un riscatto di circa 65 mila euro.