A ridosso della fine dell’anno il capo del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha fatto il punto sull’economia globale, individuando problemi e prospettive della fase economica attuale. Un bilancio fatto di luci, ma anche di tante ombre. Considerata la fonte, vale la pena riflettere sui temi focalizzati e sull’evidente sfasatura tra l’enfasi della politica sulla crescita in corso (i vari Renzi, per intenderci) e i toni ben più problematici con cui i grandi player delle istituzioni sovranazionali affrontano la realtà.

Lagarde sottolinea innanzitutto come la crescita sia ancora troppo debole, come esistano problemi di ordine strutturale come la bassa produttività. Poi passa a ragionare sulle due maggiori novità del semestre appena trascorso e le definisce «transizioni»: il cambio di fase della Cina e il rialzo dei tassi deciso dalla Fed americana.

Sulla prima transizione viene sottolineato come sia in corso in Cina il tentativo di cambiare le proporzioni tra produzioni e consumi, cioè di trovare un modello più in equilibrio tra espansione globale e sviluppo interno. Tale parabola però potrebbe implicare una riduzione dei consumi delle materie prime e dunque un prolungato periodo di stallo dei prezzi di queste ultime, con effetti deleteri per tutti quei paesi, Brasile e Australia in testa, che hanno rilanciato le esportazioni delle loro ricchezze naturali. La seconda transizione, invece, se da un lato è il risultato di un parziale recupero di salute sul fronte interno, dall’altro rischia di avere effetti negativi per molti paesi che in questi anni hanno goduto del lassismo monetario, di dollari facili e a buon prezzo su cui impostare il proprio modello di crescita.

Qui Lagarde ha ben presente ciò che è avvenuto negli ultimi anni: il tentativo di salvare la finanza a mezzo della finanza ha fatto sì che solo le banche centrali conducessero una coerente politica economica mediante una crescente massa monetaria, al prezzo però di un ulteriore sbilanciamento proprio sul versante da cui tutto è cominciato nel 2008. Il cortocircuito in questo caso è totale, in quanto nei paesi emergenti è proprio la tradizionale economia reale ad essersi sviluppata attraverso un indebitamento spropositato, in particolare in dollari. L’aumento dei tassi, dunque, potrebbe risultare particolarmente gravoso per le industrie e a cascata per tutti gli altri attori economici. Lagarde, infatti, sostiene che un dollaro più forte potrebbe condurre a «disallineamenti valutari, portando a inadempienze aziendali, e a un circolo vizioso che si estende a banche e Stati sovrani». Come a dire che la bassa crescita coniugata con il perdurare di un’economia fondata sul debito non consente di ritenere la stabilizzazione economica un dato incontrovertibile.

Ancora a fine novembre, un dossier dell’Economist metteva in relazione le tre crisi di questi anni (finanziaria anglosassone, debito sovrano europeo, emergenti) rappresentandole come interconnesse dall’anello di congiunzione costituito dal debito, definito l’«ossessione dell’economia globale». E sottolineava come proprio la politica monetaria espansiva avesse tamponato la crisi subito e posto le condizioni per un suo ulteriore sviluppo dopo.

Insomma mentre i grandi mezzi di comunicazione ci dicono che la ripresa è in corso e i principali problemi sono alle spalle, un monitoraggio un poco più attento scopre che come in uno sconcertante giro dell’oca stiamo tornando al via passando per un’economia sempre più fondata sul debito a livello globale. Lagarde si augura che nel 2016 le grandi sfide possano essere vinte, varrebbe la pena invece per quest’anno augurarsi di riuscire a scendere da questo treno che si regge su debito e insostenibilità finanziaria, per reimpostare la vita su una diversa economia.