Dire Caporetto è poco. Quella che fu la potente coalizione di centrodestra si avvia alle prossime elezioni regionali più sgangherata di come non si può. Ieri mattina sembrava che si fosse aperto uno spiraglio nel braccio di ferro tra la Lega di Salvini e Forza Italia, soprattutto grazie alla non disinteressata intercessione di Maroni, il governatore lombardo che teme una rappresaglia azzurra ove in Veneto si arrivasse alla rottura. Poi Salvini ha gelato l’entusiasmo: «A oggi un accordo con Berlusconi non c’è. Lui sta con la Merkel, noi con Marine LePen». Certo, quell’«al momento» lascia aperti varchi, e infatti il leghista aggiunge che «in Fi c’è un dibattito, chi vivrà vedrà». Però «le porte sono sicuramente chiuse per chi è al governo con Renzi come Alfano». Ed ecco che si torna al punto di partenza.

Berlusconi non si può permettere di mollare Alfano. Non in queste Regionali. Non con la Campania, unica regione in mano ai forzisti, in bilico. A Salvini ha già concesso la garanzia che non si alleerà con Tosi, il ribelle con un piede e mezzo fuori dal Carroccio, ove questi decidesse di candidarsi per silurare l’ancora compagno di partito governatore Zaia. Così il gran capo affida a Toti la missione di bloccare il nordico, con tanto di minaccia: «Vogliamo costruire un’esperienza di centrodestra vincente, ma non siamo disposti a farci prendere in giro». E una mancata alleanza in Veneto «metterebbe in discussione anche l’esperienza della Lombardia». Se la temperatura tra Carroccio e Arcore è questa, figurarsi nella Lega. Tosi assicura che a lasciare il partito non ci pensa per niente, ma non ce n’è uno che gli creda. E Salvini, proprio come sta facendo Berlusconi nel suo partito, cerca come può di spingerlo alla porta: «Chi crea difficoltà a Zaia si accomodi fuori dalla Lega».
Il quadro parla da sé: Tosi minaccia il segretario del suo partito rischiando di far perdere al Carroccio la roccaforte veneta. Salvini, che dall’omonimo di palazzo Chigi ha imparato a seguire sempre la linea più intransigente, boccia ogni dialogo con i centristi mettendo così ancor più a rischio la Campania. Berlusconi, adirato, vagheggia rappresaglie che affonderebbero il governo di destra in Lombardia. Sullo sfondo prosegue, senza nessunissima schiarita, la guerra senza quartiere tra l’ex Cavaliere e il viceré della Puglia, la cui riconquista diventa così assai meno probabile. Uno sfacelo.

Eppure Berlusconi non è affatto nero come sarebbe lecito attendersi da un leader politico che vede il proprio partito e la propria ex coalizione andare in frammenti non ricomponibili. O meglio, il suo malumore non da questo deriva. I fatti degli ultimi giorni chiariscono infatti quale logica abbia guidato negli ultimi mesi Berlusconi, dall’accettazione di una legge elettorale che lo mette con le spalle al muro alla reazione, in realtà molto più quieta di quanto avrebbero voluto i duri azzurri, dopo lo sgambetto dell’elezione di Mattarella. Non è che ci siano clausole segrete del patto del Nazareno. È solo che già da un pezzo Berlusconi sta risalendo da quel «campo» nel quale era disceso nel 1994. Basta con la politica o quasi basta, che una certa forza parlamentare conviene sempre averla. L’imprenditore «sceso» in politica per salvare le proprie aziende vuole ora tornare imprenditore a tempo pieno. Il patto del Nazareno, certo, lo ha aiutato molto, ma non in virtù di accordi inconfessabili. Solo perché gli ha restituito una credibilità molto più spendibile nell’arena degli affari che in quella politica.
Da questo punto di vista, le cose gli vanno benone. Il 49% di Rai Way era quello a cui mirava sin dall’inizio, dal momento che lo rende padrone dell’etere a pari merito col servizio pubblico, dunque intoccabile, al sicuro da brutte sorprese nella riforma Rai. I libri saranno presto un suo monopolio. I conti di Mediaset vanno molto meglio che in passato e con l’acquisto dei diritti della Champions sbaraglierà Sky. Mediolanum corre. Tutto andrebbe bene, con o senza Fitto e Salvini., se non ci fosse quel Ruby-ter che all’improvviso minaccia di diventare la grana più grossa della sua vita. Ancora una volta, insomma, a guastargli l’umore non sono i politici. Sono i magistrati.