«Il denaro non può comprare la salute, ma mi accontenterei di una sedia a rotelle tempestata di diamanti», diceva la scrittrice americana Dorothy Parker. D’altronde, è vero che i soldi non danno la salute. Ma che ci sia una relazione tra la ricchezza di un individuo e il suo benessere fisico appare altrettanto ovvio. I dati empirici, per esempio, ci raccontano che l’aspettativa di vita dei ricchi e quella dei poveri è assai diversa. Tuttavia, le modalità con cui le disparità sociali influenzano il benessere individuale non sono poi così chiare. Come suggerisce una ricerca sui macachi, le disuguaglianze sociali potrebbero aver influenzato la nostra evoluzione biologica al punto da diventare fisiologiche. Ma non per questo immutabili.

Nello scorso mese di aprile, un gruppo guidato dall’economista indiano-americano Raj Chetty (università di Stanford) ha pubblicato una ricerca piuttosto inquietante. Analizzando i dati anagrafici degli americani nel periodo 2001-2014, gli studiosi osservavano che l’1% più ricco della popolazione statunitense ha un’aspettativa di vita oltre dieci anni superiore a quella dell’1% più povero. Negli individui maschi, questa differenza arriva a 14,6 anni.
La notizia può apparire banale ai lettori del manifesto, che sugli effetti delle disuguaglianze sociali sono più informati di altri. La ricerca, molto approfondita dal punto di vista statistico, riportava osservazioni nient’affatto scontate: scorporando i dati, per esempio, appariva che né il grado di accesso ai servizi sanitari, né l’inquinamento ambientale né lo stato occupazionale (che variano tra una regione e l’altra degli Usa) influiscono granché sulle disparità nell’aspettativa di vita. Come si spiega, allora, una differenza biologica marcata come quasi quindici anni di vita in meno?

UN GENETISTA un po’ dogmatico, un cosiddetto «darwinista sociale» o «sociobiologo», potrebbe avanzare un’ipotesi basata sul Dna: grazie a una migliore combinazione di geni, gli individui più adatti all’ambiente vivono più a lungo, risultano più forti e conquistano uno status sociale superiore. Una ricerca apparsa sull’ultimo numero della rivista Science suggerisce ora una risposta alternativa.
Lo studio in questione non riguarda la specie Homo, ma un suo vicinissimo cugino, il macaco rhesus, con cui condividiamo il 97,5% dei geni e da cui ci siamo separati come specie «solo» venticinque milioni di anni fa. I macachi vivono in gruppi stratificati per rango sociale, che viene affermato attraverso l’usanza di pulire la pelliccia agli individui dominanti. Il team di antropologi e biologi condotto da Noah Snyder-Mackler della Duke University di Durham (Usa) ha esaminato come il rango sociale influenzi la fisiologia degli individui. In particolare, i ricercatori hanno analizzato il livello di risposta immunitaria alle malattie in 45 femmine di macaco di varia estrazione sociale.

macaco
TRATTANDOSI DI ESEMPLARI in cattività, i ricercatori hanno potuto accertarsi che le condizioni ambientali e nutritive delle macache fossero identiche. Esaminando però i campioni biologici prelevati dagli animali, i ricercatori hanno osservato che il rango sociale altera notevolmente la risposta immunitaria. Negli animali di status inferiore è più frequente l’insorgenza di processi infiammatori cronici, che a loro volta aumentano il rischio di sviluppare malattie e accorciano l’aspettativa di vita. La risposta immunitaria risulta modificata anche qualitativamente: nelle classi sociali più deboli si osserva una maggiore reazione anti-batterica, mentre nelle classi dominanti aumenta la protezione anti-virale.
Rispetto alla tesi del darwinista sociale, dunque, il rapporto tra biologia e status sociale appare invertito: è la gerarchia sociale a provocare un mutamento nell’adattamento all’ambiente, e non il contrario. Non è peraltro una novità assoluta. Basti pensare alle differenze anche morfologiche tra le «regine» e «operaie» nelle colonie di insetti.

DATE LE SOMIGLIANZE tra la specie umana e gli altri primati, la ricerca suggerisce una nuova prospettiva di analisi della società umana. «Tra i primati, gli umani hanno inventato la forma più corrosiva di subordinazione: lo status socioeconomico» afferma il biologo Robert Sapolsky, uno dei fondatori di questo tipo di studi, nel commentare la ricerca di Snyder-Mackler e colleghi. Secondo lui, le differenze nella fisiologia emergono per colpa dello «stress psicologico» indotto in chi occupa i gradini più bassi della scala sociale. Se la ricerca sui macachi potesse estendersi all’uomo, i dati sulla longevità degli americani apparirebbero dunque più chiari: la diversa aspettativa di vita non dipende (solo) dalle condizioni materiali provocate dalle disparità di reddito. È la stessa gerarchia sociale determinata dal reddito a stabilire chi vive di più. È come se gli organismi, in qualche modo, incorporasero la stratificazione sociale nella loro stessa fisiologia.
Come dimostra la ricerca di Science, c’è un rinnovato interesse nello studio scientifico delle cause delle disuguaglianze sociali. Nell’ultima settimana, anche su altre importanti riviste scientifiche sono apparsi articoli dedicati a questo tema. Su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), ad esempio, una ricerca guidata da Susan C. Alberts dell’università di Duke (Usa) e da James W. Vaupel dell’università di Odense (Danimarca) ha analizzato l’aspettativa di vita in diverse popolazioni di primati.

I RICERCATORI hanno esaminato alcune specie di scimmie, le tribù di cacciatori-raccoglitori Hadza (Tanzania) e Aché (Paraguay) e le popolazioni di Giappone e Svezia. Secondo la loro analisi, si vive più a lungo laddove l’aspettativa di vita varia di meno da individuo a individuo. In altre parole, la longevità di una specie è favorita dall’uguaglianza tra i suoi individui.
Sempre su Pnas, i ricercatori dell’Università della Florida hanno pubblicato un’analisi dettagliata sull’impatto della pandemia influenzale del 1918 sulla città di Chicago. Mentre secondo la vulgata l’influenza non guarda il portafoglio, e colpisce indifferentemente individui di ogni classe sociale, la ricerca dimostra che la mortalità dell’influenza è stata assai diversa (e grave) nei ceti sociali più deboli. Rispetto alle altre ricerche citate, il tema è analogo. Anche in questo caso il rapporto tra mortalità e status sociale è più complicato del previsto. Ad esempio, la diversa densità della popolazione tra i quartieri ricchi e quelli poveri non gioca un ruolo decisivo nel determinare il tasso di mortalità.

NONOSTANTE L’INTERESSE crescente, l’approccio della sociobiologia centrato sul Dna non è affatto scomparso e in molte situazioni si può anche rivelare quello più azzeccato. Ma è assai positivo che i punti di vista si moltiplichino e che i ricercatori accettino la complessità della materia, piuttosto che puntare a semplificarla. Le ricette della sociobiologia, infatti, sono state utilizzate per giustificare tagli e privatizzazioni dei servizi pubblici sulla base di un assunto semplice semplice: perché promuovere uguaglianza tra le persone se le differenze sono scritte, una volta per tutte, nel loro Dna?

Anche le ricerche sulle macache offrono una lettura politica, se trasferite sulla società umana. In primo luogo, dovremmo smettere di usare un’espressione come «legge della giungla» in senso dispregiativo, per indicare una società in cui il più forte comanda. Tra i macachi, che nella giungla vivono davvero, funziona al contrario: è chi comanda a diventare più forte. Inoltre, garantire cibo per tutti o un ambiente più sano non basterà a rimuovere le disuguaglianze, senza una parallela innovazione dell’organizzazione sociale. Ma questo è un discorso che avete già sentito: se ne discute da venticinque milioni di anni.