È il paese dei rottamatori attempati. Innovatori falliti fulminati dall’invidia, capi corrente di tutte le stagioni che non possono perdersi questa, capitani d’azienda sbucati fuori dal capitalismo di relazione direttamente nell’era del «non guardiamo in faccia a nessuno». Che Renzi vada di corsa, o passo dopo passo, o sostanzialmente stia fermo, riescono comunque a fargli corteo. Non tutti fanno solo scena.
Giorgio Napolitano ieri ha fatto un altro discorso pubblico. Nel giorno in cui il governo è ricorso due volte alla fiducia, una alla camera e un’altra al senato, era possibile sperare in un richiamo, un’osservazione, una perplessità del Quirinale. Altre volte e con altri governi il presidente era intervenuto su palazzo Chigi, aveva promesso un «rigoroso controllo» per frenare il ricorso ai decreti e alle fiducie. E invece ieri abbiamo assistito, nel silenzio, a due fiducie su due decreti; atti del governo che il parlamento non ha potuto modificare. E non questioni marginali, ma Sblocca Italia (grandi opere, concessioni autostradali, bonifiche, trivellazioni) e giustizia (riforma del processo civile) regolati con con lo strumento previsto per i casi di necessità e urgenza. Il Csm ha avuto da ridire. Napolitano, che lo presiede, no.
Il presidente è intervenuto invece guardando altrove. Ha condannato «atteggiamenti frenanti», «contrapposizioni pregiudiziali», «conservatorismi, corporativismi e ingiuste pretese di conservazione», «vecchi assetti strutturali e di potere». Un impeto già ascoltato direttamente da Renzi, il giorno in cui parlò di sé come «torrente impetuoso» e tutti gli altri «palude». Anche sul Colle non sopportano più «zavorre», «paralisi» e «impedimenti». I concetti saranno anche un po’ vaghi, la polemica non lo è affatto. Perché proprio domani prenderà forma a Roma il massimo sforzo di opposizione al governo. Benvenuti ai lavoratori e al sindacato, Napolitano ha detto da che parte sta: con chi «forte come da lungo tempo non si vedeva, persegue le riforme». La Leopolda al Quirinale.