L’autore che siamo abituati a associare ai racconti fantastici di Bestiario, quello stesso Cortázar che si esercitava nelle sperimentazioni dell’anti-romanzo contenute nel Gioco del mondo, ha attraversato per intero il «secolo breve» essendone un partecipe commentatore: lo testimoniano le lettere raccolte nel volume Così violentemente dolce, il terzo dedicato dalla casa editrice Sur alla corrispondenza dell’autore argentino (a cura di Giulia Zavagna, pp. 312, euro 16,00).

Nei primi due, Carta carbone e Chi scrive i nostri libri, si affrontavano questioni letterarie, mentre qui – come suggerisce il bel titolo del volume, che ricalca quello degli scritti di Cortázar sul Nicaragua sandinista, anch’esso «così violentemente dolce» – si tratta di «scritti politici». La selezione, effettuata da Giulia Zavagna a partire dall’edizione spagnola dello sterminato epistolario di Cortázar, presenta uno scrittore inedito per il pubblico italiano, che fece «della letteratura la sua mitragliatrice» – così disse in un’intervista del 1973 a Alberto Carbono – senza tuttavia sottrarsi all’impegno etico e morale, dunque politico, che gli eventi straordinari del suo tempo quasi gli imposero. L’ascesa al governo di Perón nell’Argentina degli anni cinquanta, la guerra d’Algeria, la rivoluzione cubana, l’insediamento al potere di Allende e i golpe militari in Sudamerica fra il 1976 e il 1983, la rivoluzione sandinista: le lettere registrano questi rivolgimenti storici, immortalano protagonisti e comparse ricostruendo una foto d’epoca dettagliata, non priva, tuttavia, di zone d’ombra.

La prospettiva di Cortázar, infatti, è quella di chi vive in una posizione interstiziale – latinoamericano espatriato in Europa – che lo espone, suo malgrado, a non poche critiche, soprattutto negli anni in cui la costruzione identitaria era preoccupazione insistente tra gli intellettuali dell’America Latina. Vanno intese in quest’ottica, allora, la polemica con lo scrittore peruviano José María Arguedas, che gli rimproverava di sostenere un universalismo aproblematico, oppure le critiche di un gruppo di narratori argentini su La Opinión: «Essere rivoluzionario a Parigi sembra essere la condizione più comoda e vantaggiosa per chi non si è guadagnato l’esilio (il suo è iniziato più come un viaggio culturale che politico, nel 1952)».

Se l’allontanamento dall’Argentina peronista sembra quasi casuale – una borsa di studio consentì al giovane Cortázar di insediarsi in Francia, dove avrebbe poi trascorso tutta la vita – la nascita della sua coscienza politica viene descritta nella celebre lettera a Roberto Fernández Retamar «Sulla situazione dell’intellettuale latinoamericano» come una vera e propria epifania. All’origine di questa illuminazione è l’esperienza della rivoluzione dei barbudos a Cuba, «l’unico vero paese latinoamericano che ha preso in mano la propria storia, il proprio destino», di cui Cortázar fu un entusiasta, tenace e a volte acritico sostenitore, come prova la postura ambigua che assunse nel cosiddetto «caso Padilla», da alcuni considerato una sorta di «affaire Dreyfus» latinoamericano. Cortázar infatti, insieme a un folto gruppo di intellettuali – tra cui Simone de Beauvoir, Italo Calvino, Carlos Fuentes, Juan Goytisolo, Mario Vargas Llosa – firmò la lettera in difesa dello scrittore cubano Heberto Padilla – accusato di contenuti controrivoluzionari per il romanzo Fuera de juego (del 1968) – ma si dissociò dal secondo documento, inviato come replica al dictat di Castro sulle linee politiche della cultura, perché lo ritenne troppo duro nei confronti del governo castrista. Una fedeltà, quella alla causa cubana e all’antimperialismo, che Cortázar continuò a mantenere a lungo, per esempio rifiutando ripetutamente incarichi nelle università statunitensi. Radicale e appassionato sarebbe stato, solo pochi anni dopo, anche il coinvolgimento nella causa per i diritti umani in America Latina, come testimonia la sua partecipazione al Tribunale Russell, a cui lo invitò nel marzo del 1974 Lelio Basso.

Sorprende constatare come la politica e la storia abbiano piegato alla loro logica anche l’intellettuale-cronopio che aveva fatto della lotta alla «Grande Abitudine» il cardine della propria poetica. Eppure. Dichiarava nel 1979 in un’intervista alla televisione spagnola contenuta in L’altro lato delle cose (a cura di Tommaso Menegazzi, Mimesis 2014): «… non sono un politico e – come ho già detto – non possiedo idee coerenti. Posso osservare una determinata situazione, schierarmi ed esprimere ciò che sento rispetto a tale situazione. Il mio, tuttavia, è un modo di fare letterario». Ed è forse questa la chiave di lettura della dimensione politica in Cortázar, che lo stesso scrittore non smise mai di ribadire, quasi a volersi giustificare, e che queste lettere confermano: un’adesione intima, intuitiva, umana e quindi soggetta anche a ingenuità, debolezze e contraddizioni.