Torino sospesa tra Londra e Madrid. Così vicina, così lontana. La ricordo il giorno dopo. La gente si aggira – sotto i portici, negli uffici o nei caffè… – sorridente (i più) e attonita, tanto forte è stato il fragore del colpo battuto. Ricordano un po’ – questi torinesi del risveglio dopo la notte elettorale che gli ha rovesciato come un calzino la città – i prigionieri del mito della caverna platonico, non più chiusi a guardare le ombre proiettate sul muro da un fuoco ma usciti ora tutti insieme a vedere la realtà alla luce del sole vero, che un po’ rivela e un po’ acceca.
Ci sono, sulla cuspide della piramide, gli stralunati: gli increduli, buona parte dell’élite fino a ieri onnipotente – élite politica, élite finanziaria, élite culturale -, chiusi a doppio mandato nel loro sinedrio, isolati acusticamente dal brusio minaccioso del malessere e del rancore, convinti come i convitati di Versailles che il loro mondo fosse «il mondo», i quali ora scomodano cabale anagrafiche e manuali di comunicazione per spiegarsi l’inspiegabile (per loro) e ci vorrebbe la penna di Balzac per descriverne le buffe espressioni. Ma poi, man mano che ci si allontana dal centro e dal vertice, il reale si fa razionale, lo stupore vira in consapevolezza e spiegazione per verità scritte sui muri, nel cavo dei negozi chiusi, nel numero degli alloggi sfitti, delle buche nelle strade, nella foggia dei vestiti, finché giunti al polo opposto della compagine sociale e della struttura urbana, nel secondo cerchio della periferia, quanto accaduto appare cosa naturale. Esito scontato. In qualche modo inevitabile.

Milano cartina tornasole

Torino ha battuto un colpo (e che colpo!). Città sorniona, ci ha abituato, nella sua storia moderna, a stare a lungo acquattata nel proprio sottosuolo a registrare come un sismografo le vibrazioni del cambiamento, per poi dare d’improvviso uno scrollone che la pone sul fronte del tempo. Rivelatrice, nel bene e nel male, di ciò che tumultuosamente viene avanti. E anche questa volta non si è smentita. In forma molto più netta – e «moderna» – che altrove. Sicuramente più che a Milano, per esempio, dove l’ipermodernità della composizione sociale, i suoi caratteri anticipatori della società che viene, non si sono tradotti per nulla nel livello della politica che al contrario è apparsa antiquata, residuale, vetero-novecentesca se si vuole usare uno stereotipo, con quell’obsoleta contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra intorno a figure fotocopia, e tutte e due le squadre a giocare dietro la linea della palla (come si direbbe in linguaggio calcistico) a dimostrazione di quanta innovazione politica abbia decostruito e neutralizzato il quinquennio di Pisapia… Il voto torinese, invece, d’un sol colpo, rivela e insieme contrasta due caratteri fondanti di quella terra di nessuno tra non più e non ancora in cui siamo immersi (in parte travolti).

In primo luogo il carattere strutturalmente oligarchico dei sistemi di governance affermatosi nella transizione dalle democrazie fordiste novecentesche alle a-democrazie (o post-democrazie) caratteristiche del finanz-capitalismo attuale. La tendenza a rendere verticali le società, divise tra oligarchie chiuse nel loro esclusivo potere e moltitudini deprivate (di reddito e di voce), per le quali il concetto di rappresentanza è reso inoperante in sé, escluso dal loro orizzonte di senso, e non resta che la resa o la protesta. Il voto di Torino è stato, in primo luogo, una rivolta – forse dovremmo dire meglio, una «vendetta» – contro un assetto di potere ristretto ed esclusivo (il «sistema Torino», appunto), immutabile e immutato per un quarto di secolo, con gli stessi volti, gli stessi linguaggi, la stessa costellazione di interessi, sempre i medesimi, a scambiarsi le cariche come nel gioco dei quattro cantoni, senza possibilità di accesso, senza rinnovamento, senza «apertura». Un’oligarchia, appunto. Un ristretto numero di «giri», come li ha definiti Zagrebelsky, costituiti da persone influenti legate da consolidate relazioni reciproche e auto-segregate dentro stanze chiuse per almeno due decenni, le cui porte ora sono state sfondate a calci da un elettorato in debito di ossigeno.

Un diverso racconto urbano

In secondo luogo il dominio monopolistico del «racconto». La capacità di maneggiare in forma totalizzante (e totalitaria) i meccanismi strutturali dello storytelling da parte di chi ne possiede i mezzi tecnologici e finanziari (soprattutto finanziari), cosicché a chi ne rimane fuori non resta che «essere raccontato», parte della realtà virtuale scelta per lui come migliore dei mondi possibili. Torino, per anni e anni, è stata raccontata così, secondo i canoni di una narrativa edificante, che rimuoveva i problemi e premiava i poteri nel celebrare il mito della città «che ce l’ha fatta». Che ha svoltato. Che ha superato il trauma della fine della sua natura di company town per sollevarsi, leggera e bella, nel tempo nuovo del «post» (grazie, naturalmente, alle sue classi dirigenti). Non era un racconto falso. E neppure del tutto infondato, perché c’è, effettivamente, una Torino che ce l’ha fatta. Che è salita, e si è fatta più bella e anche più ricca. Ma era un racconto parziale. Perché era, quella, una piccola Torino, ristretta spazialmente e socialmente entro confini angusti (la vecchia cinta daziaria, le zone privilegiate del centro e della precollina), e fuori da quei confini c’era un’altra città, una «seconda Torino», ben più estesa, che in quel racconto non si ritrovava, anzi, che da quel racconto era umiliata. E che quel racconto ha rovesciato. In questo senso il ribaltone elettorale torinese significa la caduta di una «narrativa». Quantomeno la sua fine come racconto esclusivo, e il passaggio a una chiave polifonica della rappresentazione della città, ben visibile nella distribuzione territoriale del voto.

Già i primi commenti, basati su una disaggregazione ancora grossolana del voto per circoscrizioni, sottolineavano come – apparente paradosso politico-sociale – il Pd e il suo candidato, Piero Fassino, avessero prevalso al ballottaggio solo nella Circoscrizione 1, «Crocetta-Centro» (equivalente ai Parioli romani) mentre fossero andati sotto in tutte le altre 7 circoscrizioni, con punte abissali di distanza nelle periferie. Ma un’analisi a maglie ancor più fini, per seggio, rivela la dimensione del fenomeno in forma ancor più plastica, e impressionante. Si consideri, ad esempio, il percorso del tram 3, che avevo citato nel mio precedente articolo sul manifesto, alla vigilia del primo turno, per documentare l’abissale diseguaglianza cresciuta in questi decenni tra le due città, misurabile addirittura nei sette anni di differenza nella speranza di vita tra il quartiere ricco di Piazza Hermada dove c’è la stazione di partenza e il quartiere povero delle Vallette dov’è il capolinea. Ho voluto rivisitare ora quel percorso confrontando i risultati del ballottaggio nei due seggi collocati agli estremi: in quello di Piazza Hermada, il 663, Fassino ha prevalso sull’Appendino con il 53% contro il 47%; al seggio 524 di Viale dei Mughetti, nel cuore delle Vallette, l’Appendino ha prevalso con il 74% contro il 26%…

Il gioco dei colori

Ma non basta. C’è un’applicazione assai divertente scaricabile in rete che si chiama «icoloriditorino». Sulla mappa della città sono visibili, come puntini rossi, tutti i seggi elettorali e passandoci sopra col mouse si possono vedere le percentuali di voto una per una. Ci ho giocato per ore e ogni volta sono rimasto a bocca aperta: senza eccezioni, infallibilmente, la localizzazione del seggio comanda secondo un ordine implacabile che vede il consenso per la candidata 5Stelle crescere in proporzione man mano che dall’epicentro dei quartieri ricchi e centrali (dove Fassino guadagna comunque, con percentuali comprese tra il 53% e il 59%) si procede verso l’esterno, sia lungo l’asse nord-sud, sia lungo quello est-ovest, con quote ancora moderate nella semi-periferia (o nel semi-centro) dove appunto il rapporto si rovescia e Appendino prevale per 54 o 55% a 46-45%, e distanze che si fanno abissali nel punti estremi, dove la voce dei palazzi centrali evidentemente non arriva e dove quasi ovunque il consenso 5Stelle supera il 70%! Come se, si potrebbe dire, quello torinese fosse stato un voto «geografico» prima che politico. O «geo-politico», determinato da una composizione sociale che sempre più appare vincolata al luogo, al territorio, e alla sua configurazione strutturata intorno alle isobare di un potere non più inclusivo. Ferocemente segregante.

È uno scenario per molti versi inedito. Sicuramente ormai compiutamente post-novecentesco. Il quale spiega anche, per molti versi, i deludenti (per usare un eufemismo) risultati nostri al primo turno, perché in effetti, se vogliamo guardare freddamente le cose, dentro un quadro del genere, ormai decisamente «oltre» il piano della rappresentanza così come l’abbiamo interpretata, noi siamo cancellati. Assimilati, in quanto «sinistra», alla famiglia dei nuovi privilegiati, a quelli che hanno trasformato la propria natura fino a mutare geneticamente il proprio Dna, stiamo sul pelo dell’acqua con loro dove sopravvivono (i migliori risultati li abbiamo ottenuti anche noi in centro e precollina) e andiamo sotto con loro man mano che l’elettorato si fa popolare e periferico.

Il rapporto tra voto Pd e voto a «Torino in Comune» è, drammaticamente, sinergico anziché «competitivo» a dirci che non c’è travaso, né «eredità» da contendere, ma agli occhi dei più un’identità di destino sempre più lontana da chi «sta male» e «sta fuori». Una bella lezione, che a Torino più che altrove risuona ben forte.