Dopo il bell’esordio di Undici (2008), finalista al Premio Calvino del 2007, Mia figlia follia (2010) e Ogni madre (2012), tutti editi per le edizioni nuoresi Il Maestrale, adesso arriva un’ulteriore conferma: Savina Dolores Massa è una scrittrice molto brava e leggerla è un’esperienza di bellezza che ci si dovrebbe saper concedere. Il suo ultimo romanzo si intitola Cenere calda a mezzanotte (Il Maestrale, pp. 430, euro 18) ed è un canto maturo, pieno e commovente. A muoversi nelle folte pagine consegnateci dall’autrice oristanese sono personagge e personaggi dal carattere cocciuto e fiero che fanno della propria precarietà l’osservazione privilegiata del mondo, al dritto e al rovescio. Non temono giudizi, distinguono catastrofi dell’anima e del corpo e raccontano una storia che si svolge lungo quasi cento anni nella piccola comunità di Aristànis (nome in sardo di Oristano).

Il carattere di transitorietà contrassegna le descrizioni fatte da Massa, tuttavia la significazione esatta è quella che si gioca tra il raddoppiamento della realtà e la condizione materiale di vita. Se la prima non è mai una scappatoia bensì la capacità elettiva della scrittura di costruire mondi possibili, la seconda mostra come di quel desiderio di allontanamento non si possano tacere mai le metamorfosi corporee. La cenere non si sofferma qui solo alla finitudine ma diviene crocicchio tra realismo magico e poetica della vulnerabilità. E di storie esemplari, potremmo aggiungere, che cuciono l’atmosfera rarefatta e al contempo tangibile di donne e uomini comuni in costante combattimento.

La disciplina per resistere

Nella piccola comunità sarda che Savina Dolores Massa racconta a partire dagli inizi del Novecento, la cenere è infatti anche la pietas che viene meno quando i viventi cercano si sopraffare le proprie e i propri simili, fino a rappresentare le spoglie di un modo nuovo di stare nel mondo tra la necessità di fare comunità e la libertà di contravvenire alle regole prestabilite. Ma la cenere è altresì la stessa che Bonaria e Peppina utilizzano nel proprio lavoro in una casa padronale.

Nel registro ironicamente tagliente utilizzato dall’autrice, la confidenza con la propria fragilità è proporzionale alla forza del prendere parola. Un ordine del discorso che l’autrice disciplina politicamente in favore di chi resiste o ha resistito. Le voci inaddomesticate che non sanno nulla dell’avidità e alle quali «la vanità non serve», assumono nel romanzo una travolgente energia assertiva. Si deve dare retta a quel vociare perché in fondo è proprio questa la lezione di fuoco a cui il romanzo e l’interesse della scrittrice da sempre si appella. Si potranno scoprire i racconti di amore e di morte della famiglia Mammaiòni, cioè di quando Antonio perde la moglie Bonaria, creatura taciturna «che lasciava il calco di sé ovunque», in seguito a un incidente tanto piccolo quanto fatale. Nella decisione dell’uomo di farne durare il ricordo attraverso lo scambio con i propri tre figli ancora piccoli, prende avvio l’esercizio simbolico della riconoscenza. Soprattutto si imparerà la stoffa sociale e di affezione trasformativa che Savina Dolores Massa consegna a Chicchino, Giomaria, Angelo, Rebecca, Tommaso, Maria e a tutta la litania di donne e uomini che abitano le dense pagine di Cenere calda a mezzanotte. In un orizzonte privo di eroismi e risarcimenti dell’onore perduto, l’autrice converte il corpo della scrittura in una moltitudine che sa mettersi a repentaglio «anche quando in pancia si agitavano spade che ferivano, e non erano duelli tra cavalieri e cavalli (…) ma fame». Fino al gioco della memoria. O ancora fino al protagonismo di una intera comunità del desiderio che trafigge la storia dell’ingiustizia e del costante mancarsi e ritrovarsi.

I perimetri rivoltati

Nella sistemazione cangiante di generazioni che si dipanano in una tessitura relazionale sorprendente, Savina Dolores Massa si muove con maestria a tratteggiare un paesaggio – umano e naturale – parlante di attese e premonizioni, consapevole di una restituzione complessa tra lotta per la sopravvivenza ed eredità di chi ci ha preceduto. Su quest’ultimo tema, il congegno della scrittura raggiunge un compimento nella narrazione di luoghi paradigmatici di cui possiamo seguire il dettaglio nel tempo. Tra le tante, particolarmente importante è la storia di Petronilla e Luisetta, madre e figlia che scoprono la difficoltà di dirsi prossime nell’accoglienza di un corredo familiare pesante con cui non si finisce mai di fare i conti. Del resto l’interrogazione rimane aperta: «Perché questa sorte di nascere donna? E cosa volevi essere? Nuvola».

Ma il corpo a corpo non è solo quello con la propria madre, è bensì più ampio e controverso come ogni signora della scrittura sa presagire. È infatti nell’assunzione di responsabilità verso il futuro da parte della genealogia che l’autrice trova una sua specifica libertà di movimento. Intanto del suo stesso lavoro, giacché Cenere calda a mezzanotte è un libro che per rigore e dedizione riesce a comporre in via definitiva la costellazione di alcune letture capitali. Non stupiranno in questo senso diverse consonanze con le grandi scritture poetiche e letterarie novecentesche, tra tutte basti pensare a quelle con Anna Maria Ortese. In secondo luogo, nel suo lento rimembrare la storia di una terra che può essere la Sardegna come qualsiasi altra, perché a parlarne sono quelle e quelli che ne hanno saputo agitare e rivoltare i perimetri. E se la preferenza va alla quotidianità di allargati nuclei familiari che cercano di darsi giustizia, è vero che in questa cura per chi riesce a sopravvivere non c’è mai celebrazione della vittima. Piuttosto si reclama la prosecuzione di una resistenza visionaria che, ogni volta come fosse la prima, sceglie la narrazione esperienziale come metodo ineludibile e competente di dare parola al mondo.