Adieu au langage. O Une femme est un femme o Sauve qui peut (la vie). C’è qualcosa di ultimativo e insieme di irriverente nei titoli godardiani, e questo Adieu au langage ancora di più. Addio al linguaggio: ma quale? Parola e immagine danzano sullo schermo nel 3D che ci riporta a una storia: un uomo, una donna, un d’amore. I corpi si intrecciano, si perdono, la donna è tante donne, e tanti nomi, le parole vi si sovrappongono in quella terza dimensione che appare come un terreno di scontro. Eppure ai suoi inizi – lo leggo sulla vecchia edizione de il castoro dedicato al regista che ha scritto Alberto Farassino, tra i primi a occuparsene in Italia, difatti la mia edizione non aggiornata si ferma agli anni settanta di Crepa padrone, tutto va bene. Dicevo che Godard citato scrive in una lettera agli amici: «Pensare e parlare che strano gioco è la vita».

 

Un uomo, una donna come ai tempi di Fino all’ultimo respiro, come tutta la storia delle storie. Stavolta però c’è un cane, è lui il protagonista, è lui che conduce il gioco zampettando tra l’erba nei suoi giri nel bosco e nella cittadina.
Ci piacerebbe vedere in un ideale double bill Adieu au langage insieem a Kommunisten, il nuovo film di Jean-Marie Straub (senz’altro destinato a rimanere inedito in Italia) e non solo perché i due cineasti sono legati da amicizia e affinità. Entrambi infatti si interrogano sulla rappresentazione dell’umano e della Storia attraverso l’immagine della parola, e il cinema è il luogo di questo scontro, e di una possibile rinascita nella quale ribaltare il senso comune.

 

 

Ah, dieux. Lo sguardo del cane pone domande ininterrotte, il suo cammino compie giravolte misteriose e buffe, fa ridere come un Buster Keaton di altri tempi. Ha l’aria triste chiede fuori campo la voce del regista  alla sua compagna? No sta sognando. Muto cerca la parola. Il cane è il solo essere vivente che ti ama più di se stesso. Sulle rive del lago Lemans,in Svizzera, nella casa di Godard, sul divano dove dorme, Roxy Mieville, dal nome di Anne-Marie, compagna di Godard, fantastica i suoi inaccessibili mondi tra il mercato delle pulci di Nyon e il bosco intorno.
«Non so se vivere o raccontare» si chiede una delle giovani protagoniste. Se nel cinema esistono due tendenze, una al controllo delle immagini, una alla registrazione del mondo, che come destra e sinistra definiscono due campi opposti dove ogni regista pensa il proprio lavoro, Godard li ha sempre esplorati entrambi, radicalizzandoli, ma senza mai abbandonare l’uno per l’altro. Però: destra e sinistra hanno invertito il loro significato. Dove si situano dunque le immagini? Quale il bordo che le delimita, e il fuoricampo che ne produce il senso? E quale la natura politica delle immagini, forse una nube o uno scorcio di cielo. Filmare tutto anche un piatto vuoto dopo la cena può dirci qualcosa? Il senso, la lingua (perduta) di un’immagine scorre tra vita e morte lucidamente emozionale.

 

 

 

Non si tratta di ciò che vediamo ma di ciò che non riusciamo a vedere, di cosa le immagini producono e non riproducono, la loro natura segreta. Le immagini della guerra, ieri e oggi, come mostrarla vincendo l’anestesia della pietà, della vittima. Come filmare l’Africa, e dire l’Olocausto.
Rispetto a un visivo sterilizzato, costretto in categorie cos’è bello, cos’è buono, cos’è permesso, cos’è vietato, Godard lavora per restituisce uno sguardo libero e polimorfo. Non si potrebbe farlo diversamente, il cinema, filmare il pensiero, invece delle parole? si chiede Non più descrivere la vita della gente ma la vita tutta sola, quella che è tra la gente e gli oggetti, lo spazio, il suono, la foresta dietro la finestra, i colori, la scrittura.

 

 

Qual è dunque il linguaggio a cui prova a dire addio Godard? Forse quello autoritario del cattivo cinema a cui ci ha abituato la televisione imponendo una grammatica e una sintassi alle immagini in cui tutti appariamo uguali, figure di una stessa gerarchia di potere. Lui, dunque, queste immagini le scompone, complice una terza dimensione quasi barocca, taglia le teste e inquadra uomini e donne di squarcio dandogli una nuova definizione, un nuovo spazio rispetto a quello dominante, al senso chiuso dell’interpretazione, all’autoritarismo dei luoghi comuni, delle pericolose stigmatizzazioni del pensiero, dei razzismi di categoria.

 

 

Adieu au langage è in questo senso un film violentemente politico, o meglio è un film che questa politicità la rimette al centro sottraendola all’ideologia. Si riparte dall’immagine, prima dopo oltre il cinema, mischiata alla parola che è quasi a sé liberando la realtà dal linguaggio, o meglio da un linguaggio condificato, pregiudiziale, in cui, come dice il film all’inizio, l’hitlerismo ha vinto. Per restituirne le forme segrete della realtà, il piacere di un narrare, di una scoperta, di uno sguardo che sappia ancora essere rivoluzionario, lucido, libero nelle sue associazioni.