Sono un omone con grandi mani da macellaio, cosce grosse come tronchi di quercia, mascella granitica e occhiali massicci dalle spesse lenti. Sono alto un metro e novanta e peso circa un quintale; somiglio a Clark Kent, solo che quando mi tolgo gli abiti sono appena più rapido di mia moglie, poco più forte di uomini che sono metà della mia taglia e non riesco affatto a saltar le case, per quanta rincorsa mi si conceda.

Come atleta sono eccezionalmente mediocre in tutti gli sport principali e in parecchi sport minori. Gioco un poker temerario e disastroso e in borsa sono cauto e competente.

Ho sposato una graziosa ex capoclaque e cantante rock-and-roll e ho due deliziosi bambini anormali, non nevrotici.
Sono profondamente religioso, ho scritto uno splendido romanzo pornografico di prim’ordine, Nudo su un’isola sconosciuta, e non sono né sono mai stato ebreo.

Capisco che è vostro compito come lettori cercare di cavare da queste informazioni un quadro coerente e credibile, ma temo di dover aggiungere che sono normalmente ateo, che ho gettato via a casaccio migliaia di dollari, che ho fatto saltuariamente il rivoluzionario contro il governo degli Stati Uniti, la città di New York, il Bronx e Scarsdale e che sono ancora un membro tesserato del partito repubblicano. Sono il creatore, come molti di voi sanno, di quei famigerati Centri del Dado per esperimenti sul comportamento umano che sono stati definiti dal «Journal of Abnormal Psychology» come «offensivi», «non etici» e «divulgativi», dal «New York Times»» come «incredibilmente fuorviati e corrotti», dalla rivista «Time» come «cloache» e dalla «Evergreen Review» come «brillanti e divertenti». Sono stato un marito devoto, un adultero multiplo e un omosessuale sperimentale; un analista abile e quotato e unico a essere stato espulso sia dall’Associazione psicoanalisti di New York che dall’Associazione medica americana (per «attività sconsiderate» e «probabile incompetenza»). Sono ammirato e lodato da migliaia di discepoli dei dadi sparsi in tutta la nazione ma sono stato per due volte in un ospedale psichiatrico in qualità di paziente e una volta in prigione, sono attualmente latitante e spero, dado permettendo, di restarlo.

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La mia professione originaria è stata la psichiatria. La mia passione, sia come psichiatra sia come uomo dei dadi, è stata cambiare la personalità umana. La mia. Quella degli altri. Quella di tutti. Dare agli uomini un senso di libertà, di esaltazione, di gioia. Restituire alla vita l’emozione che proviamo quando con i piedi nudi tocchiamo la terra al- l’alba e vediamo il sole prorompere tra gli alberi di montagna come un lampo orizzontale; quando una ragazza offre per la prima volta le labbra per essere baciata; quando un’idea, improvvisamente, esplode nel nostro cervello riorganizzando, in un istante, le esperienze di tutta una vita.

La vita è un’isola di estasi in un oceano di noia e, dopo i trent’anni, è raro veder terra. Nel migliore dei casi vaghiamo da una smangiata striscia di sabbia a un’altra, ben presto assuefatti a ogni granello di sabbia che vediamo.

Quando sollevai il «problema» con i miei colleghi, mi assicurarono che la sparizione della gioia era, per l’uomo normale, altrettanto naturale del decadimento della carne, e basata, più o meno, sugli stessi mutamenti psicologici. Lo scopo della psicologia, mi rammentarono, era di ridurre l’infelicità, aumentare la produttività, integrare l’individuo nella società in cui è inserito e aiutarlo a vedere e accettare se stesso. Non di alterare abitudini, valori e interessi dell’Io, ma di vederli senza idealizzazioni e di accettarli per quello che sono. Questo mi era sempre parso il fine perfettamente ovvio e auspicabile della terapia ma, dopo essere stato analizzato «con successo» e dopo aver vissuto in moderata felicità moderatamente bene con una moglie e una famiglia media per sette anni, scoprii improvvisamente, verso il mio trentaduesimo compleanno, che avevo voglia di uccidermi. E di uccidere anche parecchie altre persone.

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Feci lunghe passeggiate sul ponte di Queensborough e meditai fissando l’acqua. Rilessi Camus a proposito del suicidio come scelta logica in un mondo assurdo. Sui marciapiedi della metropolitana stavo sempre a dieci centimetri dall’orlo e oscillavo. I lunedì mattina fissavo il flacone di stricnina sul ripiano del mio armadietto. Sognavo a occhi aperti, per ore, di olocausti nucleari che sterilizzavano le strade di Manhattan, di compressori che spiaccicavano accidentalmente mia moglie, di taxi che portavano il mio rivale dottor Ecstein dritto dentro l’East River, di una nostra baby-sitter minorenne che strillava di dolore mentre fendevo la sua terra vergine.

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Ora, nell’ambiente psichiatrico, il desiderio di uccidersi e di assassinare, avvelenare, violentare o cancellare gli altri dalla faccia della terra viene generalmente considerato «malsano». Cattivo. Perverso. Per essere precisi, peccato. Se hai il desiderio di ucciderti, devi capirlo e «accettarlo», ma non devi, per l’amor di dio, ucciderti. Se desideri conoscere carnalmente minorenni indifese, devi accettare la tua lussuria e non toccare nemmeno il loro alluce. Se odi tuo padre, benissimo – ma non avventarti su quel vecchio bastardo con una clava. Capisciti, accettati, ma non essere te stesso. È una dottrina conservatrice, intesa ad aiutare il paziente a evitare atti violenti, passionali e insoliti e a permettergli di condurre una prolungata e rispettabile esistenza di moderata infelicità. Di fatto è una dottrina che mira a far vivere tutti come psicoterapeuti.

Disgraziatamente, la vita sembrava ancora più noiosa. Devo ammettere che ero allegramente e persino gioiosamente stufo mentre prima mi annoiavo in modo deprimente, ma la vita rimaneva sostanzialmente senza interesse.

Il mio umore di allegra noia era teoricamente preferibile al desiderio di violentare e uccidere, ma, secondo me, neppure molto. Ero circa a questo punto del mio squallido cammino verso la verità quando scoprii l’uomo dei dadi. La mia vita, prima del Giorno del Dado, era regolare, barbosa, monotona, banale, forzata, disordinata, nervosa: la vita di un tipico uomo di successo, coniugato. La mia nuova vita cominciò in una calda giornata di metà agosto del 1968.

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Durante il primo mese il dado non ebbe un grande effetto sulla mia vita. Lo usavo per decidere il modo in cui trascorrere il tempo libero eper scegliere alternative quando il normale «io» non era particolarmente interessato. Il dado decise che Lil e io avremmo visto la commedia di Edward Albee piuttosto che la commedia che aveva vinto il Premio della critica; che avrei letto l’opera scelta a caso da una grande collezione; che avrei smesso di scrivere il mio libro e incominciato un articolo su «Perché generalmente la psicanalisi fallisce»; che avrei comprato azioni della General Envelopment Corporation piuttosto che della Dynamics Company; che non sarei andato a un congresso a Chicago; che avrei fatto l’amore con mia moglie nella posizione numero 23, numero 52, numero 8 ecc. del Kamasutra; che avrei visto Arlene; che non avrei visto Arlene; che l’avrei vista nel posto «x» piuttosto che nel posto «y» e cosi via.

In breve, il dado decideva cose che non contavano realmente. Molte delle mie alternative tendevano a derivare dalla media generale dei miei gusti e della mia personalità. Imparai a divertirmi giocando con le probabilità che davo alle varie alternative che creavo. Lasciando scegliere al dado tra le varie possibili donne che potevo prendermi per una notte. Se giocavo con due dadi le sottigliezze in fatto di probabilità erano ancora più grandi. Mi davo sempre la pena di seguire due principi; primo: non inserire mai un’alternativa che potessi non aver voglia di accettare; secondo: accingersi sempre a seguire l’alternativa senza ripensamenti e discussioni. Il segreto di una vita dei dadi riuscita è trasformarsi in una marionetta attaccata ai fili del dado.

Sei settimane dopo iniziai a permettere al dado di dire la sua sui miei pazienti: fu un passo decisivo. Incominciai a inserire l’opzione di sbilanciarmi pesantemente su un paziente via via che mi sembrava di capirci qualcosa; di ristudiare altre teorie e metodi consolidati di analisi e adottarli per un certo numero di ore con un paziente; di far la predica ai miei pazienti. Poi incominciai a includere l’opzione di assegnare ai miei pazienti certi esercizi psicologici proprio come un allenatore impone al suoi atleti certi esercizi fisici: la ragazza timida darà un appuntamento a un artista spregiudicato; il bullo aggressivo dovrà attaccar briga con una mezza cartuccia e impegnarsi a dargliela vinta; il maniaco dello studio dovrà vedere cinque film, andare a due balli e giocare a bridge per un minimo di cinque ore al giorno per tutta la settimana. Naturalmente molti di questi significativi compiti implicavano un’infrazione al codice etico dello psichiatra. Dicendo ai miei pazienti cosa dovevano fare, diventavo legalmente responsabile di ogni brutta conseguenza che ne derivasse. Dal momento che tutto quello che fa un tipico nevrotico finisce per avere brutte conseguenze, dai loro compiti significava guai. Significava, in sostanza, la probabile fine della mia carriera, pensiero che, per qualche ragione, trovavo esilarante. Ero, da psichiatra professionista, il vero sospensorio del mio io basilare; mi mettevo a stretto contatto con il capriccio.

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Nei primi tempi il dado, di solito, mi fece esprimere liberamente i miei sentimenti verso i pazienti rompere cioè la regola cardinale di ogni psicoterapia: non giudicare Incominciai a condannare apertamente ogni squallida debolezza che riuscivo a trovare nel miei pazienti piagnucolosi e appiccicosi.
Ego, amici miei, ego. Più cercavo di distruggerlo attraverso i dadi più lui cresceva. Ogni lancio di dadi faceva saltar via un’altra scheggia del vecchio io per nutrire i tessuti in crescita dell’ego dell’uomo dei dadi. Uccidevo il passato orgoglio di me stesso come analista, autore di articoli, maschio di bell’aspetto, marito affettuoso, ma ogni cadavere veniva dato in pasto al cannibalesco ego della superumana creatura che sentivo di diventare. Come sono fiero di essere l’Uomo dei dadi! Il cui primo scopo dovrebbe essere uccidere ogni senso di orgoglio nell’io. Le uniche alternative che non inclusi mai furono quelle che potevano sfidare il suo potere e la sua gloria. Tutti i valori potevano essere sovvertiti eccetto quello. Toglietemi quell’identità e non sarò che un poveraccio tremante e pieno di paura, solo in un universo vuoto. Con decisione e dadi, sono Dio.

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La libertà, lettore, è una cosa spaventosa: così hanno detto Jean-Paul Sartre, Erich Fromm, Albert Camus e così ci ripetono continuamente dittatori di tutto il mondo. Passai molti giorni di quel mese di agosto a pensare cosa avrei fatto della mia vita, oscillando ogni ora dalla gioia alla tetraggine, dalla follia alla noia. Ero solo. Non c’era nessuno da cui potessi andare a dire: «Sono o no meraviglioso? Ho lasciato il e il mio lavoro per poter lanciare i dadi e diventare totalmente un uomo a caso. Se hai fortuna, può darsi che il dado mi permetta di finire questa conversazione».

Il problema della noia, che il Dado aveva risolto con tanto successo, pareva riapparire adesso che mi stavo avvicinando a uno stato di libertà totale. I miei amici e la mia famiglia erano stati noiosi quanto si vuole ma incominciavo a pensare che l’umanità media che incontravo per le strade, nei bar e negli alberghi della città dei divertimenti fosse ancora peggio. I dadi mi avevano abituato a una tale varietà che incominciavo a pensare, come Salomone, che è difficile trovare qualcosa di nuovo sotto il sole. Fu così che iniziai a diffondere il contagio, fondando i Centri del Dado, luoghi dove ognuno esercitava la propria libertà affidandosi… alla sorte.

I nostri Centri del Dado. Ah, i ricordi, i ricordi. Quelli sì erano tempi: gli dèi erano tornati a giocare sulla terra. Che libertà! Che creatività! Che superficialità! Che caos totale! E nulla guidato dalla mano dell’uomo ma guidato dal grande e ricco Dado che ci ama tutti. Una sola volta, una in tutta la mia vita ho saputo cosa significa vivere in comunità, sentirsi parte di uno scopo più grande condiviso dai mici amici e dai miei nemici. Solo nei miei Centri di sperimentazione in ambienti totalmente casuali ho sperimentato la liberazione totale, l’illuminazione completa, sconvolgente, indimenticabile, assoluta. Durante l’anno passato non mi sono mai sbagliato nel riconoscere all’istante quelli che avevano trascorso un mese in uno dei centri, che li conoscessi o no. Ci bastava scambiare un’occhiata e le nostre facce esplodevano di luce, il nostro riso irrompeva e ci abbracciavamo. II mondo riprenderà a splendere, ma riprenderà la sua china se chiuderanno tutti i nostri Centri.

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Immagino che abbiate già letto su questa o quella pubblicazione tutti gli isterismi tipici dei mass-media sull’argomento: la stanza dell’amore, le orge, la violenza, la droga, il crollo nella psicosi, il crimine, la follia. La rivista «Time» ha pubblicato un bellissimo articolo su di noi, intitolato con estrema obiettività: “Le fogne dei Centri del Dado”. Diceva cosi: «I relitti del genere umano hanno trovato un nuovo passatempo: motel manicomi dove succede di tutto. Fondati nel 1969 dall’ingenuo filantropo Horace Wipple sotto le spoglie di centri terapeutici, i Centri di sperimentazione in ambienti totalmente casuali (Csatc) sono stati fin dal primo momento uno spudorato invito all’orgia, alla rapina e alla pazzia. Basati sulla premessa della teoria dei dadi diffusa dallo psichiatra ciarlatano Lucius M. Rhinehart («Time», 2 ottobre 1970), lo scopo del Centri è di liberare i loro clienti dal fardello dell’identità individuale. A quelli che si presentano a uno dei Centri per un soggiorno di trenta giorni viene chiesto di abbandonare nome, abiti, comportamenti, tratti personali, tendenze sessuali, sentimenti religiosi. In breve, di abbandonare se stessi. I ricoverati – definiti «discepoli» – portano quasi sempre la maschera e seguono gli «Ordini» dei dadi per decidere come trascorreranno il tempo o chi fingeranno di essere. Quello che poteva sembrare un terapeuta risulta spesso essere un discepolo che sta sperimentando un nuovo ruolo. I poliziotti che sembrano mantenere l’ordine sono quasi sempre discepoli che giocano a fare il poliziotto. Marijuana, acido e hashish circolano liberamente. (…) Questi Centro sono, per la nostra civiltà, una minaccia ancor più grave del comunismo. Essa sovverte tutto ciò in cui la società americana, anzi, ogni società, crede. Dovrebbero essere spazzati via dalla faccia della terra. Il giudice del tribunale distrettuale di Santa Clara, Hobart Button e stato forse quello che ha meglio riassunto i sentimenti di molti quando ha detto ai discepoli Richards e O’ Reilly: «le illusioni che inducono la gente a buttar via la propria vita sono spaventose. La corsa alla droga e ai Centri somiglia alla corsa dei lemuri verso il mare. O alla corsa dei ratti nelle fogne».

L’articolo del «Time» fu, nei limiti consentiti dalla finzione letteraria, estremamente scrupoloso. Nel corso di due anni cinque dei loro redattori sperimentarono un soggiorno di un mese in un Centro di sperimentazione in ambienti totalmente casuali. L’amarezza dell’articolo può in parte riflettere l’amarezza di non aver visto tornare al «Time» tre di quegli splendidi rampolli.