Nel romanzo di fantascienza Guida galattica per gli autostoppisti, Douglas Adams inventa il pesce di Babele, una specie di pesciolino rosso che inserito in un orecchio permette di comprendere ogni lingua dell’universo. Con una mossa geniale, Adams elimina uno dei problemi più irritanti del genere: come mai gli alieni parlano l’inglese? Certo, abbiamo il Klingon di Star Trek e ogni tanto Guerre Stellari offre una scena sottotitolata con Han Solo che risponde comunque in inglese. Ignoriamo la facilità con cui comunichiamo con gli alieni come ignoriamo il suono delle esplosioni nel vacuum dello spazio.
Il nuovo film di Denis Villeneuve “Arrival” parte dal problema della comunicazione. Gli alieni arrivano sulla terra e la Dott.ssa Banks (Amy Adams) è la linguista a cui viene assegnato il compito di comunicare con i nuovi arrivati e capire se vengono o meno in pace. Le creature sono mostri con tentacoli à la H.P. Lovecraft che non ci assomigliano affatto. Imparare ed insegnare partendo da zero non è mai senza rischi. Banks racconta come il nome canguro sia stato coniato da un aborigeno che stava semplicemente rispondendo alla domanda “come si chiamano questi animali saltellanti?” con un “non lo so”. Questa storia – ammette Banks – molto probabilmente non è vera. Esistono molti racconti sull’etimologia delle parole, spesso storie senza alcun fondamento. L’idea, per esempio, che gli eschimesi usano cento parole per definire la ‘neve’ è falsa. Tanto per cominciare non esiste un’unica lingua eschimese. Esistono invece popoli diversi con lingue diverse.
La lingua che parliamo influenza la nostra percezione del mondo. Popoli con più parole per il colore blu sono più bravi a distinguerne le diverse sfumature e i Pirahã del Brasile non conoscono numeri più esatti di “un po’” e “più”. La grammatica degli Hopi, nativi americani, non conosce tempi verbali. Da questo fatto, deriva, secondo il linguista Benjamin Lee Whorf, l’idea che gli Hopi non abbiano un concetto di tempo. Whorf subisce l’influenza di Einstein ed è gratificato dall’idea romantica che gli Hopi vivono nel passato, presente e futuro simultaneamente. Ma anche questa è un’esagerazione.
Al centro di Arrival c’è proprio quest’idea della lingua. Se apprendiamo una nuova lingua diventiamo versioni diverse di noi stessi, acquisiamo nuove capacità di percepire l’universo che ci circonda. Il linguaggio è un super-potere con cui possiamo salvare il mondo. In questo periodo di muri e divisioni questo è un messaggio forte. I nostri preconcetti sugli Hopi e gli Inuit ci insegnano che non dobbiamo solo imparare a parlare una lingua nuova ma anche ad ascoltare.