La trama dell’ultimo romanzo dello scrittore marocchino Fouad Laroui, Un anno coi francesi (Del Vecchio, pp. 306, 16 euro), è ben sintetizzata già dal titolo: tratta della cronaca della prima esperienza da convittore in una scuola «francese» da parte di un ragazzino catapultato, in virtù di una borsa di studio, dal suo paesello sperduto nelle campagne di Béni Mellal alla elitaria scuola francofona Lyautey di Casablanca. Tutto viene narrato dal punto di vista di Mehdi, adolescente laconico e introverso, appassionato della lingua francese, forte lettore e portato alle fantasticherie.

Nel corso della narrazione, realtà e fantasia si mescolano incessantemente; tutto ciò che è nuovo, e spesso incute spavento, viene vissuto da Mehdi come un episodio epico di cui egli stesso è protagonista: il custode è Gambadilegno, la burbera lavandaia che critica il suo magro corredo è un’orchessa minacciosa, il sorvegliante che parlava in modo strano «era forse un bretone come ne I due illusi?»; un torvo professore gli appare come «l’assassino dallo sguardo azzurro», mentre ogni figura femminile vista o evocata si identifica per lui in qualche eroina delle sue letture.

La scena di apertura, con il ragazzino di campagna che si presenta goffamente nella scuola francese portando con sé due tacchini non può non richiamare al lettore italiano quella di Renzo coi suoi capponi. E per gran parte del romanzo la natura introversa del protagonista lo fa apparire come un individuo spaesato e perennemente «fuori posto». Impercettibilmente, però, pur tra mille gaffes e tentativi falliti, anch’egli giungerà, un po’ alla volta, a capire qualcosa di quello strano mondo e a trovarvi una nicchia per sé. L’abilità di Laroui sta proprio nel riuscire a descrivere questo lento processo senza apparentemente dar troppo peso ai tanti, piccoli mutamenti che intervengono, e che finiscono per trasformare il modo di pensare del ragazzo, che, con sua stessa meraviglia, si scopre molto più affine ai «francesi» di quanto si potesse sospettare all’inizio. Al punto che, quando, richiamato in famiglia per partecipare a un matrimonio, assiste a una rissa che coinvolge i clan dei due sposi, si ritrova a considerare l’accaduto come un osservatore esterno: «ebbe l’impressione che fosse un altro mondo, un mondo di confusione in cui tutto minacciava in ogni istante di crollare, molto distante dalle frasi ben fatte, dalla Kleine Nachtmusik e dall’odore di cera».

Il modo di ragionare infantile che filtra il mondo attraverso gli occhi di Mehdi non è semplicemente un espediente retorico ispirato al capolavoro di Saint-Exupéry: svolgendo tutta la narrazione da questo punto di vista ingenuo e soggettivo, Laroui mette il lettore in grado di cogliere, con leggerezza ma anche in modo assai efficace, qualche cosa di valore più generale: un assaggio di quei processi che avvengono nella mente di chi si stacca dal proprio mondo, misero ma ben conosciuto, per avventurarsi in un universo di cui non ha che idee vaghe, formate su fragili basi. Possono essere le letture romantico-avventurose del giovane Mehdi, ma anche gli echi del mondo «dei ricchi» (dive, calciatori, case di moda…) che ormai giungono negli angoli più sperduti del pianeta attraverso i media vecchi e nuovi e costituiscono spesso l’unico bagaglio dei migranti odierni. C’è chi, accecato dalle immagini più appariscenti, si aspetta di arrivare in un paese di Bengodi; altri, messi in guardia da solerti predicatori, temono il paese degli infedeli, dagli usi empi ed esecrabili. E per tutti il passaggio dalle idee preconcette a una conoscenza diretta e a un progressivo adattamento è lungo, accidentato e tutt’altro che lineare, anche più di quello del ragazzino del romanzo.

Nel gran parlare che oggi si fa del «problema» dei migranti, pochi riescono a vedere in ciascuno di essi una storia, una vita, una carica di umanità. Per chi non è a diretto contatto con loro è ben difficile rappresentarsi i traumi cui essi vanno incontro staccandosi dal loro mondo di origine per inoltrarsi in un universo di cui hanno sì carpito qualche brandello, ma che sono lungi dal conoscere bene e che riserva ogni giorno sorprese e novità. Un indubbio merito di questo libro, per chi lo legga in modo non superficiale, è dunque questo: pur senza mirare esplicitamente a scuotere le coscienze, esso permette di intravvedere alcuni dei problemi concreti che a ogni passo incontra chi giunge in un paese europeo conoscendone ben poco, e avanza a tentoni, cercando di capire e di integrarsi.

Molti sono gli aspetti del Marocco postcoloniale che emergono dalla narrazione, piacevole e ricca di dettagli interessanti, probabilmente in parte autobiografici (anche Laroui si è formato al Lyautey). Tra questi, la curiosa situazione linguistica del ragazzo: il lettore ha qualche difficoltà a capire quale sia la sua «lingua madre», visto che il francese, che egli maneggia molto bene, gli deriva comunque soprattutto da letture e dal mondo dell’istruzione, ma, d’altra parte, il ragazzo appare sempre in grande difficoltà nel cogliere il senso dei lunghi discorsi dello «zio» Mokhtar, che parla «un arabo dialettale ricco e pittoresco, farcito di detti gustosi, popolato d’immagini provenienti dal fondo dei secoli». L’autore sembra attribuire la colpa di tutto ciò a una condizione di deprivazione linguistica della madre, che parlava sì un arabo dialettale, ma molto impoverito «qualche frase, sempre le stesse: “mangia!”, “vai a lavarti le mani!”, “È ora di dormire!”, “Hai fatto i compiti?”», ma viene da chiedersi se non si trattasse invece di un problema rimosso del ragazzo: un inconscio rigetto della lingua madre, considerata «inferiore» rispetto alle lingue letterarie della cultura: un fenomeno tutt’altro che raro in ambito nordafricano, in cui solo l’arabo classico ed il francese hanno riconoscimento e rispetto.

Dal libro emergono, tra l’altro, utili dettagli relativi al modo di vivere tradizionalmente la religione islamica. Se gli aspetti più evidenti e noti anche nell’Occidente si riferiscono a norme come il divieto del vino o la severa segregazione dei sessi (i francesi «li si ammirava per la serietà e l’efficacia, ma erano da biasimare per la loro mancanza di religione, e le loro donne erano troppo libere»), pochi hanno coscienza di quanto profondamente radicato sia tra i musulmani il senso della solidarietà e il dovere di aiutare e sostenere il prossimo. Che viene fuori, anch’esso di sfuggita, quasi senza volere, in diversi punti del romanzo. Come quando un perfetto sconosciuto prende per mano il ragazzino sperduto e lo aiuta a trovare un indirizzo, oppure quando il padre dà ospitalità ad un senzatetto trovato per strada: «non si può mica dormire comodi sapendo che all’angolo della strada un povero vecchio malconcio dorme per terra, no? Tra l’altro, è contro la nostra religione non fare niente. Bisogna aiutare i poveri». Non siamo molto distanti da quello che dalle nostre parti (il mondo dei «francesi») chiamano «carità cristiana».