«I diritti dei lavoratori vacillano sotto l’attacco del neoliberismo». Parla Ignacio Fernández Toxo, dal 2008 segretario generale di Comisiones Obreras (Ccoo), primo sindacato spagnolo. Cresciuto nelle fila della sinistra antifranchista, iniziato all’attività sindacale giovanissimo nei cantieri navali di Ferrol, dal 2011 è presidente della Confederazione europea dei sindacatati.

In questi mesi di campagna il governo parla di una ripresa del mercato del lavoro e insiste sulle cifre macroeconomiche che dovrebbero indicare la luce in fondo al tunnel della crisi. È davvero così?

I dati indicano che, forse, ci siamo lasciati alle spalle la fase recessiva, ma la crisi morde ancora forte: basti dire che sei milioni persone (2 milioni di nuclei familiari) vivono oggi in Spagna al di sotto della soglia di povertà. E anche per quanto riguarda il lavoro, siamo ancora in piena emergenza: non c’è un effettivo miglioramento perché i nuovi posti di lavoro che si creano sono precari e nascono sulle rovine dei contratti fissi, che intanto continuano a diminuire.

La disoccupazione giovanile (16-25 anni) è intorno al 50%. Si può parlare di una generazione perduta in Spagna?

Questo dato rimanda innanzitutto a problema sociale che sta a monte della piaga della disoccupazione: i giovani tra i 16 e i 25 non dovrebbero stare nelle liste di collocamento ma nelle aule. Detto questo, la questione riguarda tutti i paesi periferici della Ue ed è il risultato di una gestione disastrosa in chiave neoliberista della crisi. Tuttavia la povertà si sta espandendo a macchia d’olio e non riguarda più solo i disoccupati, ma anche i giovani che hanno un lavoro. Questo dipende da un deterioramento fulminante delle condizioni lavorative, che sta penalizzando soprattutto i lavoratori dell’Europa meridionale, ma che riguarda anche i paesi nordici: si pensi ai famigerati mini job tedeschi. Il confine economico nord-sud, soprattutto per le nuove generazioni, è diventato molto più labile a causa della precarizzazione del lavoro voluta dal neoliberismo europeo.

Che cosa può fare il sindacato per contrastare questa inerzia?
I sindacati dovrebbero interpretare la nuova realtà sociale e lavorativa e dare risposte mirate. Negli ultimi anni questo non sempre è avvenuto e le forze sindacali sono spesso rimaste al margine dei movimenti sociali e delle spinte rinnovatrici che viene dalla cittadinanza. D’altra parte, l’individualizzazione dei rapporti lavorativi, alimentata dall’illusione di una libertà contrattuale che ha beneficiato solo le imprese, ha spesso tagliato fuori il sindacato dalle piccole realtà imprenditoriali e ne ha ridotto il margine di manovra. Bisogna recuperare questi spazi, riattivare la contrattazione collettiva e ritornare ad essere agenti di cambio.

In che modo?
È assolutamente imprescindibile lavorare su scala europea, sia a livello sindacale che a livello politico. L’azione dei sindacati può raggiungere la massima efficacia solo sullo sfondo di una comune volontà politica che, a livello comunitario, volti le spalle alla voracità del capitale e promuova l’uguaglianza sociale. Oggi, più che mai, servono riforme fiscali che ridistribuiscano la ricchezza, aumentino la tassazione diretta allentando la pressione di quella indiretta, favoriscano le realtà imprenditoriali che creano lavoro a scapito della rendita finanziaria, e puntellino il welfare che in molti paesi versa in condizioni rovinose.

Sul piano più strettamente lavorativo quali sono le priorità?

Innanzitutto bisogna intervenire sulle modalità di contrattazione: è necessario contrastare la proliferazione della precarietà, la temporalità come normale modalità d’accesso al mercato del lavoro e tutte le forme di instabilità contrattuale. Però bisogna lavorare anche sulla disuguaglianza salariale tra uomini e donne e tra generazioni. Il primo è un problema endemico, mentre il secondo rimanda alla questione delle nuove forme contrattuali. In ogni caso la risposta sta nel potenziamento della contrattazione collettiva, ostacolata dall’establishment economico e politico.

È necessario abolire queste nuove forme contrattuali?

La precarietà va combattuta, tenendo presente che forme di flessibilità lavorativa possono trovare spazio nella realtà sociale attuale. Attenzione, però: la cosiddetta flessibilità può essere un’opzione positiva solo in un quadro di equilibrio di forze tra impresa e lavoratore. Il problema è che questo equilibrio è ostacolato da un costante attacco al diritto del lavoro, tradotto azioni dirette – quasi 300 sindacalisti sono ad oggi sotto processo in Spagna per l’esercizio del diritto di sciopero – o in nefaste riforme lavorative come, quella spagnola, portoghese, greca o italiana. In queste condizioni, la flessibilità non è altro che un eufemismo che nasconde una totale assenza di regole. Una situazione che ovviamente si risolve a vantaggio dell’impresa, la quale oggi può esercitare il suo potere coercitivo sul lavoratore con il placet dei governi neoliberisti.

Come considera il progetto politico di Landini?

Preferisco non intromettermi dibattito interno alla Cgil. La mia personale visione è che il sindacato sia di per sé un’entità politica, che però deve restare indipendente e quindi mantenersi lontana dalla lotta partitica. Il sindacato ha un suo spazio d’azione che non dovrebbe sovrapporsi a quello dei partiti.

A proposito di politica: un’eventuale affermazione di Podemos beneficerebbe la causa sindacale?

Considerata l’assenza della sinistra in Europa, il consolidamento di un progetto politico anti-liberista è un fatto positivo. Per il momento, uno degli effetti più salutari dell’irruzione di Podemos, è stata la ripoliticizzazione della società: molte persone che la crisi avrebbe allontanato dalla politica e dalla lotta sociale, hanno trovato una rappresentanza in Podemos. Mi dispiace, d’altra parte, per Izquierda unida, uno dei partiti più vicini alle lotte sindacali: mi pare che paghi, senza colpe, un tributo troppo alto all’avanzata di Podemos.