Il paese della ricchezza privata e della povertà pubblica. È il ritratto dell’Italia che emerge dal Rapporto sui diritti globali giunto alla dodicesima edizione e presentato ieri a Roma nella sede nazionale della Cgil. Il rapporto «Dopo la crisi, la crisi» (Ediesse), curato da Sergio Segio, con prefazioni di Susanna Camusso e don Luigi Ciotti, e stato promosso dalla Cgil insieme a un cartello di associazioni composto da Antigone, Arci, Cnca, Gruppo Abele, Legambiente e Fondazione Basso.

Dove sono finiti i soldi?

«Non si parla mai della ricchezza esistente, ma della povertà prodotta dalla crisi – ha detto Danilo Barbi della segreteria Cgil – In Italia esiste una gigantesca concentrazione di ricchezza non tassata in maniera progressiva come ad esempio in Spagna». Dove sono finiti questi soldi e come vengono distribuiti? Questa è la domanda che attraversa i cinque capitoli del rapporto (Economia e lavoro, Welfare e terzo settore, diritti umani, ambienti e beni comuni, politica internazionale) offrendo una prospettiva sulla crisi dal punto di vista di chi l’ha subita.

L’occultamento di queste ricchezze emerge dall’analisi delle diseguaglianze sociali. Secondo Bankitalia, nel 2012 il 10% della popolazione più ricca possedeva quasi la metà della ricchezza nazionale (il 46,6%), mentre il 10% delle famiglie più povere percepisce solo il 2,4% del totale dei redditi. In Italia dieci persone possiedono 75 miliardi di euro, pari al reddito di 500 mila famiglie operaie. Solo duemila persone possiedono un patrimonio superiore a 169 miliardi di euro, proprietà immobiliari a parte.

I soldi dunque esistono, ma sono stati dirottati verso l’alto della piramide sociale, mentre in basso dilaga la povertà, la deprivazione anche alimentare, la precarietà del lavoro che sfuma verso la zona grigia del lavoro povero e dell’inoccupazione. Giunti al sesto anno della crisi, aggravata dalle politiche dell’austerità ispirate al rigore fiscale, ai tagli alla spesa pubblica e all’aumento delle tasse adottate anche dai governi italiani, sono cresciute le diseguaglianze sociali, mentre i salari vengono compressi. Nel 2013, sono cresciuti in Italia solo del 3,69%, negli Stati Uniti sono invece aumentati del 36,34%, in Francia del 32,85%, in Germania del 28,53%.

Si lavora come sempre tanto, ma si viene pagati sempre di meno, e non si risparmia nulla. In questa cornice è esplosa la povertà. Tra il 2007 e il 2012 coloro che vivono in povertà assoluta sono passati da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, pari all’8% della popolazione. Secondo i dati Istat, analizzati nel rapporto, i poveri relativi sono il 15,8% della popolazione: 9 milioni 563 mila persone. La disoccupazione generale è, al momento, al 12,6%; quella giovanile (15-24 anni) è al 43%. Dall’inizio della grande recessione, oltre 980 mila persone hanno perso il loro posto di lavoro. Solo tra il 2012 e il 2013 sono evaporati 424 mila posti di lavoro. Peggio dell’Italia, ci sono solo Grecia, Croazia e Spagna.

Lavoro povero, poveri che lavorano

Quello del lavoro povero, e della disoccupazione, è uno scenario ricorrente in Europa dove le persone che hanno perso il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale dei disoccupati, mentre i nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni di unità, 124 in totale. A livello globale, sostiene l’Ilo, nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni, i lavoratori poveri sono 200 milioni e sopravvivono in media con 2 dollari al giorno. Sono alcuni dei risultati di quella che Luciano Gallino ha chiamato la «lotta di classe dall’alto», agita dalla finanza, favorita dalle politiche dell’«austerità espansiva» e dalla trasformazione autoritaria delle democrazie parlamentari.

Dal trentennio “glorioso” al trentennio “penoso”

La polarizzazione tra ricchi e poveri, e la crescita esponenziale delle diseguaglianze sociali,  sono il risultato di una redistribuzione della ricchezza sociale e prodotta dal lavoro “al contrario”. E’ così emerso un vero e proprio sistema sociale che non ha solo trasferito la ricchezza sociale verso i ricchi, ma ha dissolto il valore del lavoro e ha prodotto la dissoluzione del ceto medio come rappresentazione sociale che ha equilibrato lo scontro nel corso del cosiddetto “trentennio glorioso”, quel periodo di crescita miracolosa registrata nel secondo dopoguerra dal 1945 al 1973. Ancora oggi ci troviamo a vivere nella coda lunga di quello che è stato chiamato il “trentennio penoso”: la contro-rivoluzione che ha dato vita al capitale finanziario e che oggi ha istituito un determinismo sociale ed economico che impone le politiche dell’austerità e quelle neo-autoritarie.

Una costellazione di fattori che ha prodotto «una catastrofe umanitaria, non solo economica – si legge nel rapporto sui diritti globali -ed è il frutto di scelte politiche precise. La rotta non è stata invertita e le politiche dell’austerità hanno stremato i lavoratori e il ceto medio». La trasformazione in corso è enorme, ma pochi sembrano averla compresa. La ripresa non ci sarà (nel 2014 in Italia sarà forse allo 0,3%), e non avverrà sulla base del vecchio modello di sviluppo basato sull’edilizia, le grandi opere e la precarizzazione. In più non produrrà occupazione fissa, mentre i senza lavoro resteranno a lungo sopra la doppia cifra.

La crescita “anemica”

Il rapporto ripercorre il dibattito nato nel corso dell’ultimo anno sul libro dell’economista francese Thomas Piketty: Le Capital au XXème siècle che ha colto una delle principali novità prodotta dalla recessione globale. Piketty, tra l’altro, sostiene che la crescita economica oscillerà a lungo tra lo 0 e l’1% e tale andamento è “endemico”. La recessione ha infatti portato l’economia capitalistica occidentale in un regime di deflazione.

A questo proposito si parla di “crescita deflattiva”, prodotta sin dalla fine degli anni Ottanta dalla trasformazione del sistema di produzione capitalistico verso un’economia pienamente finanziarizzata. A questo proposito è stata anche formulata una seconda ipotesi, ancora più pessimistica. L’ex ministro del tesoro Usa Lawrence Summers ha infatti parlato di una “stagnazione secolare”.

Previsioni non del tutto lontane da questo scenario le hanno fatte anche le istituzioni economiche internazionali, dall’Ocse all’Fmi o l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) secondo le quali quella in atto è una crescita economica che non produce occupazione stabile. Si chiama jobless recovery, e si manifesta nelle epoche di recessione: mentre il Prodotto Interno Lordo migliora, il tasso di disoccupazione (quello generale e quello giovanile) resta elevato e continua ad aumentare per un periodo indeterminato. Anche nelle economie, come quella degli Stati Uniti, dove si producono nuovi posti di lavoro, la disoccupazione effettiva (che comprende cosiddetti Neet, scoraggiati, part-time o lavoratori precari) continua ad aumentare.

La precarietà si confonde con la disoccupazione di lunga durata (si allungano cioè i tempi per la ricerca di un nuovo lavoro) e il lavoro in quanto tale è sempre più povero, meno pagato, incapace di rilanciare i consumi interni (aumentano cioè i working poors).

 

Il Jobs Act di Renzi e Polenti

La riforma Poletti che eliminato il requisito della causalità del contratto a tempo determinato e permette al datore di lavoro l’opportunità di non specificare i motivi tecnici, organizzativi o produttivi con i quali sceglie di dare un “termine” a un contratto di lavoro. E questo per 36 mesi, tre anni. Una misura legislativa che ha sollevato molte polemiche ed è stata definita da un giuslavorista come Piergiovanni Alleva come “la morte del diritto del lavoro, inteso come diritto che tutela la parte debole (…) In questo modo il lavoratore a termine diventa un lavoratore in condizione di minorazione di diritti, è una persona che non può protestare, specialmente se fuori c’è tanta disoccupazione”.

Una riforma che risponde all’idea di “precarietà espansiva” di chi hanno parlato gli economisti Riccardo Realfonzo e Emiliano Brancaccio. Un provvedimento, definito da Alleva come un “atto illegittimo” perché contrasta con la direttiva europea 70 del 1999 sui contratti a termine, ma funzionale alla precarizzazione ulteriore del lavoro intermittente che verrà pagato ancor meno di quanto non lo sia già oggi.

Con l’inizio del semestre italiano alla guida del Consiglio Europeo il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha voluto inaugurare una discontinuità: quella della cosiddetta “flessibilità” del patto di stabilità che ha imposto il rigore dell’austerità. Nelle analisi contenute nel rapporto sui diritti globali, alla luce delle considerazioni sulla “crescita anemica”, questa discontinuità viene ridimensionata ad una variante delle politiche economiche austere. Come ha ricordato l’economista Realfonzo, uno dei correlati dell'”austerità flessibile”, o “morbida”, è appunto questo allargamento della precarietà del lavoro. Un elemento già presente nel precedente ciclo economico.

Il “colpo di stato” di banche e governi

Nel rapporto dei diritti globali ricorre spesso il riferimento al lavoro del sociologo torinese Luciano Gallino e al suo ultimo libro “Il colpo di stato di banche e governi” (Einaudi).
“Si può parlare di colpo di Stato quando una parte dello Stato stesso si attribuisce poteri che non gli spettano per svuotare il processo democratico – afferma Gallino in un’intervista inclusa nel rapporto – Oggi decisioni di fondamentale importanza vengono prese da gruppi ristretti: il direttorio composto dalla Commissione UE, la BCE, l’FMI. I Parlamenti sono svuotati e hanno delegato le decisioni ai governi. I governi li hanno passati al direttorio. Se questa non è la fine della democrazia, è certamente una ferita grave. Pensiamo al patto fiscale, un enorme impegno economico e sociale con una valenza politica rilevantissima di cui nessuno praticamente ha discusso. I Parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di Stato in atto”.

Politica dei diritti

L’unica buona notizia in questo scenario fosco, in cui la politica «è impotente o ignobile», è che «nella società sta maturando la necessità di rivendicare sia i diritti civili, che quelli economici e sociali – ha detto Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani al Senato – La violenza della crisi ha reso esigibili tutte queste categorie di diritti che la sinistra ha separato in una gerarchia immutabile».

Il rapporto: “Dopo la crisi, la crisi”

Strumento unico di consultazione e documentazione da 12 anni, creato a ridosso degli eventi di Genova 2001, il nuovo «Rapporto sui diritti globali» è stato pubblicato da Ediesse (15 euro) e quest’anno si presenta in versione ridotta a causa del clima di austerità. Al volume di 170 pagine è accluso un Dvd con oltre 900 pagine di analisi, cronologie, schede, glossari, bibliografie e una sitografia. Curato dall’ Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil con ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, contiene interviste tra gli altri a Andrea Baranes, Marco Bersani, Aldo Bonomi, Alessandro Dal Lago, Marcello De Cecco, Sergio Finardi, Luciano Gallino, Paolo Maddalena, Nicola Nicolosi, Simone Pieranni, Chiara Saraceno, Danilo Zolo.