Nel mese del Ramadam la città vive di notte. Fino a tardissimo le famiglie musulmane riempiono le strade, mangiano tutti insieme dopo il digiuno del giorno, chiacchierano nel respiro dell’aria serale, gli uomini in disparte, le donne tra di loro, magnifiche (sembra di stare in un film di Ferid Boughedir, Halfaouine). Gli unici che si mischiano sono i ragazzini, corrono dietro a un pallone bimbi e bimbe ancora liberi da veli, divisioni, generi.
Davanti al vecchio porto si pesca, e dove fino a pochi anni fa ti dicevano di non mettere piede ci sono invece infiniti locali di tendnza, e le luci del Mucem.
Gli occhi di quel ragazzo sono scuri e profondi, non fuggono davanti all’obiettivo quando dice rivolto al regista (la mise en abyme è uno dei motivi ricorrenti di questo festival): «Se chiedi qua a Algeri come pensa il suo futuro, chiunque ha vent’anni ti dirà che o si ammazza o attraversa il mare. Oppure si cede, ci si rassegna e si diventa degli zombie. Io voglio attraversare il mare, almeno credo».

 

 

 

Dans ma tete un rond-point – vincitore del concorso francese – è senza dubbio uno dei film più forti nella selezione del Fid che si è chiuso ieri. Difficile dire che festival è stato, rispetto a qualche anno fa le indicazioni progettuali appaiono meno nette, e la selezione più differenziata – anche se francamente appare incomprensibile perché nel concorso internazionale per la Francia c’è un film come Maestà di Andy Guerif, un esercizio piuttosto sterile, e non questo. Di certo va ancora messo a punto il trasferimento al Mucem – col fascino del mare intorno abbagliante – magari qualche navetta la sera o decidere di abbandonare altre sale più lontane cosa però che comporterebbe un allontanamento netto dall’altra parte della città.

 

 

Con la stessa produzione di Harimane Mani, la regista rivelazione due anni fa al Fid con Haricots Rouges di un cinema algerino in movimento, Dans ma tete un rond-point di Hassen Ferhani, anche lui una buona conoscenza del festival (e questo lato di fedeltà verso i propri autori è in fondo molto bello) è un film solo di uomini, siamo dentro al mattatoio di Algeri e da lì il regista non esce mai. I suoi personaggi intrecciano il rito del lavoro – sangue, abbattere le bestie, macellarle, preparare per i venditori – a riflessioni sulla propria vita che qualcuno ha speso interamente là, intrappolato in una dimensione di povertà e di ossessione. Si può impazzire facilmente e da questa pazzia il protagonista vuole scappare. Lui e il suo amico kabylo cantano canzonette d’amore, si interrogano su cosa significa essere innamorati, e intanto vanno avanti ogni giorno uguale all’altro, chiusi nello spazio del mattatoio che coincide con quello dell’inquadratura. Ognuno di loro rivela un’innnocenza e una disperazione, la vita che è andata e il desiderio di non farsela sfuggire, una tela umana nella quale affiora con intensità e poesia una violenza più grande: quella del Paese e forse quella che è stare al mondo.

 

 

«Quando ci hanno arrestato ci hanno picchiato, torturato, i poliziotti mimavano atti sessuali, ci hanno costrette a stare per terra nude, dicevano che mi avrebbero cambiato la faccia». Fa un certo effetto sentire in quegli archivi i racconti di Maria Auxiliadora Lara Barcellos detta Dora, militante del Var, il movimento operaista che negli anni Settanta combatte la dittatura in Brasile, perché suonano così simili a quelle ascoltate dai ragazzi rinchiusi a Bolzaneto dopo l’attacco alla Diaz l’ultimo giorno del G8 a Genova.

 

 

Dora è la protagonista insieme a altri tre compagni tra cui Antônio Roberto Espinosa, comandante del Var, del film di Anita Leandro, Retratos de Identificação, una storia del Brasile e dei suoi anni oscuri di repressione e violenza, proiettata sul presente attraverso le esperienze dei militanti sopravvissuti, e poi archivi, fotografie segnaletiche, film (quello magnifico di Haskell Wexler sulla tortura Brasil: report on torture), e le parole che dicono appunto della tortura, feroce, insopportabile, devastante come mostrano le facce gonfie e stravolte sulle immagini prese in galera dei prigionieri.
Chael Schreier, il compagno arrestato con loro non ce la fa, non regge ai calci, alle scariche elettriche, ma la comunità ebraica che esige una nuova autopsia in presenza di un giornalista e così per la prima volta la tortura è provata pubblicamente, cosa che salva gli altri detenuti. Dopo il rapimento dell’ambasciatore svizzero in cambio della sua liberazione una quarantina di loro viene mandata in esilio in Cile, due anni prima del golpe di Pinochet che appena al potere arresterà e ucciderà molti dei brasiliani rifugiati.

 

 

Dora insieme a un altro compagno fugge in Germania, ma anche lì la vita è complicata, non possono uscire da Berlino ovest come se fossero loro i criminali. Si può impazzire per troppo dolore, per troppa ansia, per troppe rinunce?
La Storia e il presente sono la materia comune dei film latinoamericani visti al Fid, che non significa un cinema piatto o «banalmente» di realtà, al contrario la scommessa è quella di inventare un’immagine che a questo racconto dia maggiore tensione, un segno specifico e insieme un carattere universale.
È quanto accade, ad esempio, nelle Mille e una notte di Miguel Gomes, proposto al festival insieme alla masterclass del regista portoghese, che nel ripercorrere gli abusi della troika, Fondo Monetario e Banche europee assecondati dalle scelte governative della politica per massacrare il Portogallo e i suoi cittadini inventa forme di cinema. Nella fine delle utopie, tra chi ha perso il lavoro e vive ai margini, nei caseggiati squadrati delle periferie, Gomes innesta Le mille e una notte, la realtà del presente nella parola fuori del tempo del mito.

 

 

 

Lo stile di Anita Leandro è molto semplice, netto, interroga una memoria che affiora per la prima volta nei suoi dubbi, e sul nordo delle sue immagini, in quell’universo appunto della parola, cerca una verità ancora instabile, i cui responsabili sono rimasti impuniti nonostante i tribunali.
Ed e soprattutto una storia d’amore di cui parla il film, l’amore tra uomini e donne, e l’amore ostinato per un’utopia, una resistenza disgregate sul filo del tempo. Qualcosa che in fondo ci riguarda da molto vicino.