Al giovane attivista Tom Hayden, intelligente e generoso, hanno creduto e voluto bene in tanti, molti anni fa. Qualcuno lo ha poi considerato poco meno di un traditore, quando negli anni della crisi del Movimento, scansò la trappola dell’isolamento e della nostalgia e cercò nuove strade nelle istituzioni per il proprio agire politico. Infine, negli ultimi decenni, gli è stata riconosciuta la rispettabilità che si è meritato come uomo politico serio, riformatore e progressista.

Era arrivato all’impegno da studente, documentando la protesta e la solidarietà verso le lotte dei neri del Sud per il giornale dell’università di Ann Arbor, nel Michigan. Si maturava presto, allora. Aveva ventuno anni quando scrisse il Port Huron Statement, il lungo documento che tracciò il quadro ideologico-politico entro cui negli anni successivi si mossero la Student for a Democratic Society, di cui Hayden fu presidente nel 1962-63, e una parte del Movimento. Contro i conservatori al potere e i liberals che sostenevano la Guerra fredda, il documento denunciava la stessa guerra e la corsa alle armi atomiche, la povertà e il razzismo dominante. Fu visto un documento rivoluzionario, perché chiamava all’impegno personale e alludeva all’idea che la democrazia potesse essere «partecipata».

Nel rispetto dei suoi principi, Hayden prese parte insieme con tanti altri giovani – bianchi e neri, maschi e femmine – alle lotte contro la desegregazione razziale nel Sud nei primi anni sessanta; riorientò poi il suo attivismo nella successiva fase in cui l’Sds concentrò le forze sulle comunità urbane del Nord, nella speranza di costruire un «movimento interraziale contro la povertà». Era a Newark da più di due anni, quando nel 1967 vi ebbe luogo una delle sollevazioni urbane più violente. Fu anche attivo contro la guerra del Viet Nam, a partire dal ’65, e tre anni più tardi fu individuato come uno degli organizzatori delle proteste di Chicago contro la convention democratica: fu denunciato (insieme con altri sette, tra cui Abbie Hoffman, Jerry Rubin e Bobby Seale), processato e condannato a cinque anni. Tanto palesi furono i pregiudizi e le falsificazioni messe in atto in quel processo-farsa che le condanne furono cancellate in appello.

Ma intanto il movimento andava in frantumi. Bianchi e neri si separavano e le donne cominciavano a dare vita alle loro organizzazioni separate. La Sds si spaccava in due nel 1969, da una parte i marxisti-leninisti, o maoisti, di Progressive Labor e dall’altra la componente più radicale, che quasi subito si sarebbe chiamata Weatherman e avrebbe imboccato la strada dell’organizzazione clandestina e della lotta armata. Hayden e tanti altri della «vecchia guardia» liberal di sinistra si trovarono spiazzati. Era una crisi personale, oltre che politica, di cui danno ampiamente conto sia Todd Gitlin in The Sixties (1987), sia lo stesso Hayden nell’autobiografico Reunion (1988). Ai brandelli del Movimento sarebbero rimasti solo il Viet Nam, il Laos e la Cambogia – e Nixon.

Quando Jane Fonda e Hayden si sposarono, nel gennaio 1973, molti degli ex compagni guardarono a quel matrimonio come se sancisse che «tutto» era finito e che vinceva ormai la «sinistra-spettacolo»: lui non aveva mai disdegnato la luce dei riflettori, lei era una star del cinema. Paradossalmente, sulla data stessa del matrimonio incombeva una coincidenza altamente simbolica: la firma degli accordi di pace a Parigi. L’acredine era frutto dei distacchi personali e del vuoto politico e ideale che stava di fronte a chi era diventato adulto nell’ardore dei dieci anni precedenti. Nell’amarezza, diffusa tra i maschi, si nascondeva il problema reale di che cosa fare ora.

Come in una «coda» personale e politica, l’anno dopo il matrimonio, i due sposi partivano per il Viet Nam del Nord. Hayden vi aveva fatto il suo primo viaggio nel 1965 e lei era già «Hanoi Jane». Nel ’67, lui aveva ottenuto la liberazione di tre prigionieri di guerra americani, in riconoscimento per ciò che il movimento contro la guerra aveva fatto negli Stati Uniti.

Al ritorno pubblicarono un documentario, Introduction to the Enemy. Introduzione al nemico che non ripudiava nessuna delle posizioni che l’opposizione alla guerra aveva assunto negli anni precedenti. Nel ’75, come è noto, la guerra finiva del tutto con la caduta di Saigon e l’abbandono precipitoso dell’ambasciata degli Stati Uniti da parte degli ultimi funzionari e rifugiati sudvietnamiti.

Ora però tutto quello che era iniziato nei primi anni sessanta era davvero finito. Non era così soltanto per le donne, i cui movimenti erano ancora in una fase di espansione. Nella confusa crisi di quegli anni Hayden cercò una strada nuova: non era riuscito a cambiare il sistema, forse avrebbe potuto cambiare la politica, ma stavolta dall’interno.

Tanti altri stavano cercando la loro strada nelle professioni, soprattutto nell’insegnamento e nel giornalismo; altri rientravano nei ranghi e qualcuno immaginava ancora di poter «radicalizzare la lotta». In ogni caso i sentieri erano ormai separati.

Nelle elezioni del 1976, fatta pace con il Partito democratico, concorse in California alla candidatura per il Senato nazionale, ma fu sconfitto. La strada che aveva deciso di imboccare era comunque quella. Nel 1982, ridimensionò con successo le proprie ambizioni, correndo per un seggio nel Parlamento statale e ottenendolo.

Fu poi senatore, sempre nel Senato della California dal 1993 al 2000. Non furono sempre successi: fu sconfitto nella corsa a governatore dello stato e nella corsa a sindaco di Los Angeles. «I repubblicani mi attaccano come se il processo di Chicago non fosse mai finito, e però vengo rieletto ogni due anni», scriveva all’inizio di Reunion, quando sedeva nell’assemblea legislativa californiana. E pur nella democratica California avrebbero continuato ad attaccarlo anche in seguito, per quello che faceva e per quello che scriveva nei tanti libri che pubblicava, con una attenzione per i problemi e una sensibilità personale che, negli anni, non si era perduta per la strada.