Uscendo dal Padiglione Copernic dell’Hôpital Cochin di Parigi, dove avevo trascorso un po’ di tempo con Yves Bonnefoy qualche tempo prima che morisse, incrociai sul Boulevard de Port Royal alcuni ragazzi dell’Association Lascaux, che tiene atelier di pittura per bambini malati. Mi proposero di acquistare un loro disegno, ne scelsi uno, quello che più mi colpì per la sua semplicità, o forse perché vi ritrovai alcuni degli elementi fondamentali della poesia e del pensiero di Bonnefoy, poeta, traduttore, saggista scomparso il 1 luglio a Parigi.

La sua figura era quella di uno scrittore e intellettuale d’ispirazione rinascimentale, tale era la vastità delle sue competenze e dei suoi interessi, dalla letteratura alle arti, dalla matematica alla filosofia e alle scienze religiose, e l’esigenza di favorire l’emancipazione umana attraverso il valore sociale della cultura.

Tra le radici
Giunto alla poesia attraverso lo studio dei classici, fu poi folgorato nel 1941 dalla scoperta della Petite anthologie poétique du surréalisme di Georges Hugnet, che lo indusse a trasferirsi a Parigi per proseguire gli studi di matematica e filosofia, e per frequentare il movimento surrealista.
André Breton, molto impressionato dalla sua personalità, volle contattarlo, ma il giovane poeta non aderì mai al movimento, pur dicendosi influenzato dalla sua lezione soprattutto per quanto attiene all’importanza fondamentale dell’inconscio nell’ispirazione poetica, meno per quanto riguarda certe derive esoteriche e l’automatismo della scrittura. Tuttavia, alcuni suoi testi giovanili, come Il cuore-spazio (1945) o il Trattato del pianista (1946), appaiono in verità assai marcati da questa ascendenza.

Avviato agli studi sull’arte italiana da André Chastel, Bonnefoy amava la pittura di paesaggio, in primis Poussin (in una poesia in ecfrasi come Dedham vista da Langham descrive il paesaggio inglese di un quadro di Constable), la semplicità intesa come essenzialità arcaica degli elementi fondamentali presocratici, gli alberi (una sua poesia, L’albero della rue Descartes, campeggia accanto a un affresco di Pierre Alechinsky su un muro di Parigi prossimo al Panthéon). Proprio negli alberi, del resto, grazie alla verticalità delle loro radici ben piantate nel cuore della terra e ai rami tesi verso il cielo, vide la metafora stessa della presenza.

Nella lirica Agli alberi, in Movimento e immobilità di Douve (1953), scrive: «Voi fibrosa materia e consistenza,/Alberi vicini a me quand’ella s’è avventata/Nella barca dei morti…», volendo indicare nell’albero un essere vivo, materico e anche per fisionomia analogo alla figura umana, topos che si ritroverà costantemente nell’opera, specie in alcuni libri d’artista ispirati a disegni di Hollan e Ostovani (prestigioso, del resto, il catalogo delle sue collaborazioni con artisti – Ubac, Mirò, Tàpies, Chillida, Bram van Velde – per libri di pregio).

L’opera di Bonnefoy contiene, non a caso, una inesausta esaltazione dell’infanzia come momento preverbale, capace di percepire l’unità del mondo: all’Uno plotiniano delle Enneadi contrappone il dualismo platonico del concetto di linguaggio, che fin dai suoi esordi denunciò con un titolo inequivocabilmente polemico, Anti-Platone, 1947, stigmatizzando la sterilità delle «perfette Idee». Nell’infante risiede, dunque, la vera scienza che è presenza, capacità di percepire l’unità e l’immediatezza sensibile del mondo senza alcuna mediazione del linguaggio, che, nominandole, separa le cose per percepirle dall’esterno come parti e rappresentazioni del tutto («Sì, per l’infante // E le poche parole che ho salvato, / Per una bocca infante», scrive in una delle sue più alte raccolte, Nell’insidia della soglia, del 1975).

Prima di approdare a questa capacità di acconsentire, di accettare e amare la vita, la poesia di Bonnefoy aveva dialetticamente lavorato sul negativo, come testimonia la raccolta iniziale Movimento e immobilità di Douve, già connotata come teatro, dove aveva inscenato un rito sacrificale cruento di matrice anche edipica che ancorava una donna, Douve, a un luogo (il fiume omonimo) e al «d’où» (il dove, e il da dove che esso contiene), con il suo repertorio barocco di trasmutazioni orride dell’organico e la sua araldica simbolica.

Affinità elettive
Dopo avere preso le distanze dal surrealismo, Bonnefoy indirizzò sempre più la sua poesia, consapevole della finitudine e della mortalità umana che situano l’assoluto e la sacralità nell’hic et nunc terreno, verso un’idea di rigenerazione del mondo attraverso l’ascolto delle sue forze ctonie e misteriose; ma lo fece diffidando, sempre, di ogni misticismo. Ne parlano raccolte come Ieri deserto regnante (1958) e Pietra scritta (1965), che delineano un’«estetica dell’imperfezione» di matrice baudelairiana, in un continuo dialogo con i morti che ha qualcosa di catacombale e attribuisce alla pietra il compito di ridare voce ai trapassati.

Assieme al leit-motiv della pietra s’impone quello della voce (molte poesie di Bonnefoy si intitolano, infatti, Una pietra o Una voce), che per l’appunto richiama all’ascolto del mondo, degli esseri; infatti per Bonnefoy non esistono cose, tutto è essere: la sua fede laica vuole da sempre «che vi sia dell’essere». Saranno allora, in Quel che fu senza luce (1987) e in Inizio e fine della neve (1991), lo stupore e la meraviglia a fare della neve un pittore che ricrea, coi suoi candidi fiocchi, il mondo, o l’ascolto delle voci del bosco, come nella poesia Hopkins Forest, la scoperta dei suoi «segni indecifrabili». Si sente, in questi passaggi della poetica di Bonnefoy, l’instaurarsi dell’influsso shakespeariano, che decide di orientarsi non verso le cose morte, ma verso le cose appena nate (Racconto d’inverno, posto in epigrafe a Pietra scritta).

Nel 1993, con La vita errante si inaugura quella che si potrebbe definire la terza stagione della poesia di Bonnefoy, che fa sempre più spazio alla prosa, nelle espressioni del frammento lirico, del racconto in sogno, dell’apologo o della fiaba. Qui Leopardi, che tradusse e cui votò un vero e proprio culto, incontra Perrault, Ovidio Petrarca e Borges; un’occasione semplice (un albero, una casa, un incontro..) preludono a un evento inatteso che restituisce senso alla presenza; oppure, un richiamo antico come quello al pittore Zeusi, che dipingeva grappoli d’uva più reali del vero, diventa l’occasione per una vertiginosa riflessione lirica sulle immagini e sull’arte.

In Le assi curve (2001) reminiscenze bucoliche infantili cedono il passo a poesie «teologiche» in cui Bonnefoy, come forse solo Hugo prima di lui osò fare, si rivolge direttamente a Dio e lo interroga riguardo alla sua incapacità di comprendere la finitudine e il dolore umani, mentre nella Lunga catena dell’àncora (2008) costruisce un teatro di sole voci nel disordine, che alterna sonetti dedicati per lo più a scrittori e artisti anche italiani (da Leon Battista Alberti allo stesso Leopardi) a riscritture della Genesi, («l’uscita dal giardino» dell’Eden di Adamo ed Eva come inizio del loro vero confronto con l’imperfezione e la bellezza del mondo). Finché, nell’Ora presente (2011) e nel Digamma (2012), subentrano riscritture immaginarie di impossibili rappresentazioni di pièces shakespeariane, da Amleto a Otello.

Il fatto è, come ha scritto a ragione Valerio Magrelli, che l’opera poetica di Yves Bonnefoy è quella di un poeta-pensatore la cui scrittura si fa trasversalmente attraversare da un costante «saggismo creativo». Se essendosi formato alla scuola di Bachelard, Chastel, Wahl e Hyppolite non avesse scritto in vita sua neppure un verso, basterebbero l’importanza della sua opera saggistica sulla letteratura e sull’arte (da L’improbabile, 1959, a Rimbaud. Speranza e lucidità, 2009, dagli Entretiens sur la poésie, 1990, ai numerosi volumi monografici dedicati a Shakespeare, Baudelaire, Ariosto, Goya, Giacometti), la direzione di un’opera monumentale come il Dizionario delle mitologie e delle religioni (1981), o le traduzioni dei Sonetti e delle principali opere shakespeariane, di Donne, Petrarca, Leopardi, Keats, Pascoli e Yeats, o ancora prose come L’entroterra (1972), o l’appena apparso struggente volume autobiografico L’écharpe rouge (2016), a farne – disse a ragione Jean Starobinski – «uno dei maggiori prosatori del secolo scorso».

Oltre le ideologie
Non sorprende, quindi, che da decenni Yves Bonnefoy, innamorato dell’Italia – la definì una «terra per le immagini» – sia il poeta francese contemporaneo più studiato e letto nel mondo, specie da noi, dove la sua opera è in larga parte tradotta e un Meridiano Mondadori, da me curato, gli è stato dedicato nel 2010. Se questo ha indotto a volte alcuni a «imbalsamarlo» nell’immagine del poeta «ufficiale», del professore del Collège de France, è perché non si sa quanto grande fosse prima di tutto la sua persona, sempre capace di dare ascolto a chiunque lo chiedesse.

Figlio di un’umile famiglia di tradizioni socialiste (il padre era operaio di ferrovie, morto di diabete quando Yves aveva solo tredici anni, la madre una maestra), da sempre sensibile, benché nemico di ogni ideologia e convintamente laico, al bisogno di cultura dei ragazzi, cui fu vicino durante gli anni del suo insegnamento, non rifiutava mai letture in periferie difficili o in carceri di massima sicurezza (come il carcere minorile di Nisida), convinto che la poesia fosse innanzitutto una missione «morale», che essa dovesse parlare a tutti e costruire transitivamente la relazione: per farsi, come recita il titolo della sua ultima raccolta, Ensemble encore (2016), risorsa preziosa e imprescindibile per l’umanità, un bene comune e condiviso.