«Il mio nome è Steven Tingay e di mestiere faccio lo scienziato. Mi chiedono spesso come passa la giornata uno come me. Dunque: fondamentalmente costruisco grosse macchine del tempo, in mezzo al deserto».
Potreste pensare a uno scherzo, o alla freddura di un fine umorista britannico. Ma state pur certi che quando Mr. Tingay – astrofisico di punta dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, australiano d’origine e bolognese d’adozione – parla di macchina del tempo ha in serbo per voi qualcosa di davvero speciale. Degno del miglior Michael J. Fox di Ritorno al futuro. Forse non ha la silhouette elegante di una moderna DeLorean, ma può trasportarvi in un remoto passato, all’origine dell’universo (più di 13 miliardi di anni fa), quando le prime galassie e le stelle hanno preso forma, all’indomani del Big Bang. Parliamo dello Square Kilometre Array (SKA), il più grande radiotelescopio mai costruito dall’uomo.
La caccia ai misteri dell’universo si gioca, oggi, su due fronti paralleli e contrapposti. Da un lato c’è l’infinitamente piccolo della materia, con i fisici delle particelle e i grandi acceleratori in stile CERN di Ginevra. Dall’altra l’infinitamente grande dell’astronomia, con sofisticatissimi occhi elettronici puntati in direzione dell’universo bambino, là dove tutto è cominciato.
Come hanno fatto il cosmo e le stelle e le galassie in esso contenute a formarsi ed evolversi? Qual è la natura della materia oscura e della energia oscura? Per tentare di dare una risposta a questi interrogativi bisogna saper vedere con le orecchie. Ascoltare la «musica» delle stelle e interpretare i segnali radio emessi dalle più lontane (e dunque antiche) sorgenti cosmiche. Avete presente il rumore bianco che si sente alla radio? Quasi impercettibile ma c’è. Un radiotelescopio fa questo: capta le deboli emissioni dello spazio profondo, le amplifica e le analizza per restituirci una fedele immagine del cielo.
FAST IN CINA
A costruire il più grande radiotelescopio al mondo ci ha pensato la Cina con FAST, un paraboloide da 500 metri di diametro che ha letteralmente surclassato la concorrenza. Ma il limite ingegneristico alla costruzione di questi mega esperimenti è ormai raggiunto. Ecco dunque l’idea di costruire un network di radiotelescopi distribuito su un’area di diversi di chilometri quadrati e su due continenti, per dar vita a una tecnologia decine di volte più sensibile e centinaia di volte più veloce a mappare il cielo di ogni altro strumento disponibile.
Non un singolo grande orecchio, ma un grande numero di «piccole» antenne connesse tra di loro in fibra ottica per un telescopio che virtualmente si estende dall’Africa meridionale al continente australiano e genera dati a una velocità 10 volte superiore al traffico Internet (di tutto il pianeta Terra).
SKA IN SUDAFRICA E AUSTRALIA
I radiotelescopi devono essere posizionati il più lontano possibile da apparecchiature costruite dall’uomo, che emettono onde radio e possono interferire con i segnali provenienti dallo spazio. Inoltre, dato che le onde radio di frequenze più alte vengono assorbite dall’umidità presente nella nostra atmosfera, sono da preferire i climi asciutti. Forse per questo Mr. Tingay e compagni hanno scelto il deserto di Karoo, vicino Carnarvon nella provincia del Capo Settentrionale in Sudafrica, e il deserto di Murchison, in Australia occidentale, per costruire SKA. Ma presto il progetto potrebbe allargarsi ad altri Paesi partner africani: Botswana, Ghana, Kenya, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Namibia e Zambia.
GLI ABORIGENI YAMAJI
L’Italia è una delle prime nazioni che ha aderito al progetto, con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’ente italiano per lo studio dell’universo. INAF protagonista al Festival della Scienza di Genova, in corso in questi giorni, con la mostra «Shared Sky-sotto lo stesso cielo»: un viaggio tra arte e scienza che raccoglie le opere degli aborigeni australiani della tribù Yamaji e degli artisti sudafricani del popolo San.
I discendenti degli indigeni, che per migliaia di anni hanno abitato i luoghi dove verrà costruita la macchina del tempo di SKA, hanno incontrato per la prima volta gli scienziati del progetto in mezzo al deserto. I primi con un bagaglio di storie e tradizioni legate al cielo stellato, i secondi con la versione moderna del telescopio di Galileo a godere di uno spettacolo notturno, cancellato dall’inquinamento luminoso delle nostre città. Sotto quel «cielo comune» che dà il titolo alla mostra, astronomi e aborigeni hanno condiviso storie e leggende, alla vecchia maniera, di fronte a un fuoco acceso.
Ed ecco il Sole indossa i panni di una vecchia signora gentile, che ogni mattina decora il suo viso con la terra rossa del deserto. Un po’ di ocra finisce sulle nuvole all’orizzonte, è l’alba. L’anziana signora mette a fuoco un albero e lo porta in alto nel cielo per dare luce e calore al mondo. La Luna è un uomo grasso e cattivo, che costringe moglie e figli (le stelle) a cercare cibo per soddisfare le sue voglie. Ma le stelle si ribellano ai soprusi del padre ancestrale e lo attaccano a colpi d’ascia. Nella lotta la Luna malvagia subisce progressive amputazioni (le fasi lunari) fino a scomparire dal cielo quando abbiamo la luna nuova. Risorgerà tre giorni più tardi, potente nel cielo, indistruttibile simbolo della morte.
L’EMÙ CELESTE
Come nella cultura Inca, il popolo Yamaji identifica il gran numero di nebulose oscure che attraversano la Via Lattea (il disco della galassia di cui fa parte anche il Sistema solare) con figure di animali, fra le quali la più conosciuta è sicuramente quella dell’Emù celeste. Il grande uccello dal collo allungato, non molto diverso da uno struzzo, le cui uova costituiscono l’alimento base della dieta Yamaji. Quando ai primi d’aprile la Via Lattea sorge sull’orizzonte notturno e l’Emù celeste sembra disteso nella posizione della cova, gli aborigeni sanno che è il momento di uscire a fare provviste. E c’è spazio anche per un’affascinante coincidenza: le Pleiadi, che il mito greco vuole inseguite dal gigante Orione, sono per il popolo Yamaji sette sorelle nel cielo, minacciate da un misterioso cacciatore disegnato fra la nostra costellazione di Orione e il vicino Toro. Molti hanno ipotizzato una forma di contaminazione culturale. Oggi sappiamo che non è stato così: le storie riferite al cielo sono diffuse in tutto il territorio australiano e sufficientemente antiche (lo si vede in disegni, arte, reperti) da escludere un precedente contatto con la tradizione europea.
C’è un filo rosso che collega il cielo sopra l’Italia al cielo di Karoo e di Murchison. Racconta una storia vecchia miliardi di anni. Steven Tingay continua a costruire la sua macchina del tempo e giura che, presto, scoprirà com’è nata.