Perché non mi avete detto che ero così matto?» avrebbe chiesto Ali – molto soddisfatto – dopo aver visto se stesso interpretato da Will Smith in Ali, il grande film che Michael Mann ha dedicato al campione dei massimi più cinematografico della storia. In realtà, non poteva essere troppo sorpreso perché, dietro alle quinte, mi aveva raccontato Mann al tempo dell’uscita del film, Ali aveva partecipato molto alla lavorazione – cosa logica per un atleta che ha sempre inteso la sua carriera – dentro e fuori dal ring – oltre che come un percorso politico, anche come un’opera di performance art.
La sua è un’aura più simile all’impasto artistico/erotico/politico di quella di Marlon Brando che di altri grandi dello sport – enorme e indelebile (come Brando grasso che piange al processo contro suo figlio) anche quando fragile e malata. Ali – già visibilmente colpito dal Parkinson- che porta la fiaccola olimpica ad Atlanta, nel 1996.

 

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Come Muhammad Ali trascendeva la boxe, fin dalle prime immagini – una sequenza di montaggio che parte da un numero di night club sulle note di Sam Cooke- il film di Mann trascende il semplice biopic sportivo: è infatti anche un film sugli States del movimento per i diritti civili, del lutto post Kennedy, del Vietnam, della soul music, di Malcolm X e Martin Luther King, e delle loro morti. Un kolossal americano in cui Mann sembra emotivamente più vicino del solito al suo soggetto, deciso a comunicarne il più possibile la ricchezza e la complessità, anche a costo di «schizzare» l’omicidio di King in un paio di inquadrature o darci l’assaggio dell’Africa dei primi Seventies inscenando per pochi secondi un’incredibile pranzo tra Idi Amin e Mobutu.

 

 

 

E questo pur lasciando il cuore del suo film sul ring, con le scene di pugilato più belle e vere che siano mai state ricreate a Hollywood; perché, se il regista è affascinato dal personaggio Alì, è ancora più affascinato dalla magia della sua arte. Coreografati, round per round nella progressione drammatica, sulla base di quelli originali, gli incontri di boxe – contro Liston, Frazer e Foreman- sono, allo stesso tempo, uno specchio e un omaggio a quell’arte.

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Si tratta di un’arte – come ha provato recentemente Fred Wiseman in Boxing Gym – che, nella sua combinazione di movimento e violenza, sembra fatta per il cinema.
Cosi la storia di Muhammad Ali che, non a caso, è stato soggetto di parecchi film oltre a quello di Mann. In testa a tutti, ricordiamo i due lavori del fotografo americano William Klein, Float Like a Butterfly, Sting Like a Bee (1969) e Muhammad Ali: The Greatest (del 1974, una versione espansa del film precedente a cui Klein aggiunse girato realizzato in occasione del leggendario match africano contro George Foreman), due film che hanno immortalato momenti chiave e frasi storiche della giovinezza di Ali che amava dire: «Sono così cattivo che faccio ammalare le medicine», e  «Sono così veloce che quando spengo l’interruttore della luce raggiungo il letto prima che diventi buio».

 

 

 

 

Interamente dedicato all’incontro con Foreman in Zaire (un’extravaganza soprannominata The Rumble in the Jungle) anche l’ottimo When We Were Kings, di Leon Gast, Oscar per il miglior documentario del 1974. Mentre in The Greatest (1977), codiretto da Tom Gries e Monte Hellman, Ali interpretò se stesso al fianco di Ernest Borgnine (nei panni dell’allenatore Angelo Dundee), James Earl Jones e Robert Duvall.