Da più di trent’anni in Italia corruzione e malaffare s’intrecciano alle vicende e alle scelte della politica. Nel lungo processo seguito alla dissoluzione delle due grandi componenti ideal politiche, quella democristiana e quella comunista, hanno prosperato tuttte le possibili forme di uso distorto della politica: dall’affarismo personalistico democristiano all’avventura dissipatoria di Bettino Craxi e dei suoi sodali, i veri inventori e iniziatori del sistema italico da basso Impero nel quale viviamo. Poi è arrivato Silvio Berlusconi, a sistematizzare con la sua forza finanziaria e mediatica e il carisma personale che è difficile disconoscergli l’uso in grande della politica a fini di potere personale e di copertura delle proprie innominabili turbe psichiche e morali. C’è un filo diretto fra l’una e l’altra scansione del triste processo? Certo che c’è, basterebbe esaminare con attenzione le storie e i rapporti personali e le fortune pubbliche e private di ognuno di questi protagonisti per rispondere affermativamente. Se non lo rivelasse in maniera esplicita quel che emerge vistosamente dai vari anelli di questa storia, ci avrebbe pensato la potente struttura della massoneria deviata a fornirgliene una (e oggi? mah, io no lo so, ma sarebbe interessante che qualcuno che se ne intende se ne occupasse).
A questa fenomenologia di profondo degrado politico e morale si sono accompagnati, e da un certo momento in poi si sono profondamente intrecciati, due altri aspetti di eguale portata storica. Il primo è rappresentato dal vasto consenso che, nella latitanza di una politica alternativa seria, hanno riscosso le proposte di una politica corrotta (sul molteplici piani) e affaristica.
Qui il discorso dovrebbe calarsi sull’Italia: su ciò che l’Italia è o non è, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stata (dall’Unità nazionale in poi, s’intende; ma in maniera più pressante dalla Resistenza fino ai nostri giorni). Non possiamo dilungarci. Basti qui rilevare che, nel corso degli ultimi trent’anni, cui all’inizio alludevamo, le due sponde del processo si sono avvicinate sempre di più: la politica corrotta ha favorito l’emergere di una nazione infetta; la nazione infetta ha manifestato un suo ampio consenso, e persino la sua gratitudine, alla politica corrotta.
L’altro aspetto storico di notevole importanza è di segno opposto. L’affermazione di una politica corrotta all’interno di una nazione infetta ha incontrato un argine, forse superiore alle previsioni, nell’applicazione delle leggi, cioè da parte, essenzialmente, della magistratura. Ciò è accaduto sia nei primi grandi casi di corruzione della politica (l’affarismo democristiano, l’avventura socialistico-craxiana); sia, ancor più clamorosamente, nei casi recenti riguardanti scelte personali, scelte affaristiche e scelte politiche tout court di Silvio Berlusconi.
Questa resistenza ha avuto un aspetto positivo e uno negativo. L’aspetto positivo riguarda, appunto, la forza di resistenza di pezzi intieri dell’apparato dello Stato, allevati nel culto della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, e non corrompibili (se lo fossero stati, no?, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata). L’aspetto negativo riguarda l’evidente incapacità della politica – quella sana, o presunta tale – di sottrarsi con le sue sole forze al ricatto della corruzione.

Per carità, nel lungo periodo di cui parliamo sono stati Presidenti della Repubblica personalità come Ciampi, Scalfaro, Napolitano: sarebbe certo un errore ridurre tutta la storia politica italiana alla tabula rasa, che comunque, a vederne le conclusioni, si direbbe la sua vera sostanza. Forse sarebbe più esatto dire che a opporre un argine con gli argomenti giusti non sono riusciti e spesso non hanno neanche pensato i gruppi dirigenti dei partiti democratici, che avrebbero invece dovuto farne la loro principale missione (anche da qui si dipartirebbe un troppo lungo discorso, che faremo un’altra volta, ammesso che ce ne sia ancora l’opportunità).
Richiamo queste poche e piccole cose, che tutti conoscono ma pochi ricordano, per dare maggior forza alle mie argomentazioni successive. Ciò di cui oggi parliamo non nasce a caso, ha radici profonde. Le mezze misure non bastano più, gli accomodamenti fanno ancora più male. Dico questo perché penso che quel che è avvenuto in queste ultime settimane e in questi ultimi giorni nel nostro paese non costituisca una scoperta improvvisa, una novità sorprendente, ma un punto di non ritorno. Dalla direzione che ora s’imbocca dipende tutto il resto.
Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Quello che, su questa legittima e ormai incontestabile sentenza, egli è riuscito a costruire seduta stante ha tutti caratteri di una manovra eversiva contro la separazione dei poteri e contro lo Stato di diritto, cioè contro la nostra democrazia. Non ci sono parole per descrivere ciò che ha detto nel suo messaggio televisivo. Non ci sono parole per descrivere il senso dell’appello alla piazza nei dintorni della sua principesca abitazione romana, e il fatto medesimo che esso sia stato possibile e si sia realizzato.
Siamo cioè di fronte a un pregiudicato che per salvarsi, e persino per rilanciarsi, fa appello alla folla, cioè all’indeterminato più incontrollabile della volontà popolare (per un gioco della sorte Palazzo Venezia è a due passi), per dire che le regole del gioco son quelle che lui ha inventato e pratica per sé. Anche un bambino capirebbe che la sua dichiarazione di lealtà al Governo Letta non è che una copertura al suo gioco eversivo. Tengo in piedi il Governo, a patto che mi riconosciate l’impunità.
Questo gioco va immediatamente contrastato e sconfitto. Io, che sono un moderato fra gli estremisti, dico che in questo momento la questione decisiva non è quella della sopravvivenza del Governo Letta. La questione decisiva è la difesa della libertà repubblicana. Questa è la linea del Piave delle istituzioni, del Parlamento e dei partiti «sani», che su questo punto devono dimostrare se la loro «sanità» è vera o solo presunta. Sono gli altri, i «berluscones», che devono accettare la difesa della legalità a tutti i costi, se vogliono tenere in piedi il governo; non viceversa, come, ahimè, cercheranno in tutti i modi di motivare e fare (e non solo loro, ma anche altri).
La difesa della legalità repubblicana consiste del resto in questo momento in tre semplici cose: 1) l’applicazione in tutti i suoi modi e forme della sentenza; 2) la decadenza ipso facto – cioè, anche qui, pura e semplice – del condannato dal suo seggio parlamentare; 3) la moltiplicazione urbi et orbi di tutte le voci disponibili (istituzioni, Parlamento, politica) a favore della legalità repubblicana e di condanna esplicita e senza riserve delle molteplici, infami dichiarazioni dei sostenitori del Capo contro la magistratura e a favore della sovversione (serve fare esempi?).
Un ruolo importante, anzi decisivo, è destinato a svolgere in questi frangenti il Presidente Napolitano. Come lui sa meglio di chiunque altro, la difesa della legalità repubblicana non tollera né mediazione né sconti: paradossalmente, come già dicevo, è perciò più semplice, c’è solo da tener ferme le regole, e difenderle contro gli attacchi forsennati cui sono sottoposte.
Chiedo, chiediamo al Presidente Napolitano di farsi garante della corretta e totale applicazione della sentenza della Cassazione, con tutte le necessarie e inevitabili ricadute. Chiedo, chiediamo, al Presidente Napolitano che vada in televisione a dire, con uno di quei suoi discorsi semplici e diretti di cui è capace, che a nessuno è consentito di evocare e sollecitare lo scontro con lo stato di diritto e contro la separazione dei poteri, e che la campagna eversiva suscitata da Silvio Berlusconi e dai suoi amici in questi giorni non è tollerabile, è anch’essa un reato, che replica un reato.
La crisi delle democrazie in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente in Italia, sono state sempre favorite dalla debolezza delle classi dirigenti e dalla loro incapacità di segnalarne la progressiva avanzata. Il rischio che la democrazia fosse travolta in genere è sato segnalato ventiquattro ore dopo che sera stata travolta (così come il più delle volte coloro che ne segnalavano il rischio sono stati accolti dalle risate e dal dileggio dei contemporanei). L’Italia, come sempre, è un paese speciale. In Italia oggi il rischio della catastrofe della democrazia non consiste nel colpo di Stato (di cui peraltro, il nostro personaggio, se ce ne fosse bisogno, sarebbe capace). Consiste in una cosa anch’essa più semplice, e in fondo più lurida, e cioè nella pratica cancellazione e dissoluzione delle regole e dei valori che la sovraintendono e la rendono possibile. Questo rischio oggi è assolutamente reale: non a caso il pregiudicato invoca come prima riforma la riforma della giustizia, con lo scopo, ora e sempre, di mettersi al riparo dai rischi della sua applicazione.
O lo si ferma prima che questa soglia sia varcata: oppure tutto il resto, – governo e governance, riscatto possibile dei partiti democratici dalla loro subalternità, ricostruzione del rapporto etica-politica, – sarà perduto. Chi sottovaluta è complice. Solo chi è consapevole di questo, e agisce di conseguenza, può ricominciare.