Il temporale non è arrivato, malgrado in questa stagione piova quasi sempre nel pomeriggio. Mercoledì scorso, 20mila zapatisti si sono riuniti nella periferia di San Cristóbal de Las Casas (Chiapas, Messico), sistemandosi ordinatamente in lunghe file indiane, sotto il cielo azzurro a tratti macchiato da nuvole grigie. Hanno marciato stretti, attraversando in silenzio e a passo svelto le vie del centro, mostrando cartelli che dicevano «il vostro dolore è il nostro dolore», «la vostra rabbia è nostra», «non siete soli».

Il messaggio era per gli studenti di Ayotzinapa, un paese nello stato messicano di Guerrero, e per le loro famiglie. La notte del 25 settembre scorso, di ritorno da un’iniziativa organizzata nella vicina cittadina di Iguala, i ragazzi di Ayotzinapa hanno occupato tre autobus per ritornare a casa. Sono stati fermati dalla Polizia municipale che ha sparato contro di loro. Poi, mentre gli studenti improvvisavano una conferenza stampa nel luogo dell’agguato, è arrivato un gruppo di sicari che ha sparato nuovamente sugli studenti, con le stesse armi che ha in dotazione la polizia locale.

Sono state ferite 17 persone e sei sono rimaste uccise, tra cui il giovane Julio César Mondragón, a cui sono stati asportati gli occhi e la pelle dal viso ed è rimasto solo il cranio ricoperto di sangue. «Finalmente è stato fatto ordine», ha titolato il giorno dopo il quotidiano Diario de Guerrero.

A due settimane di distanza, 43 studenti che si trovavano su quegli autobus risultano desaparecidos, spariti nel nulla. È stata rinvenuta una fossa comune con 28 corpi che si teme siano loro, ma bisogna aspettare almeno una settimana perché gli esami dicano qualcosa. Pochi giorni fa, due uomini legati al cartello del narcotraffico Guerreros Unidos hanno confessato che quella notte la Polizia Municipale ha consegnato loro 17 ragazzi, che sono stati giustiziati, bruciati e seppelliti in una fossa comune. Degli altri 26 desaparecidos ancora non si sa nulla. E giovedì, dopo l’arresto di quattro nuovi sospetti, in una montagna vicino a Iguala sono state scoperte altre quattro fosse comuni, contenenti cadaveri inceneriti.

Il 6 ottobre la criminalità organizzata locale aveva minacciato che, se entro 24 ore non sarebbero stati rilasciati 22 poliziotti arrestati a seguito dell’operazione, avrebbe fatto i nomi di tutti i politici collusi con il narcotraffico. Intanto si è dato alla fuga il sindaco di Iguala; secondo la Procura Generale della Repubblica il politico è vicino alle organizzazioni criminali dal 2009, e si sospetta sia l’autore intellettuale dell’operativo.
La connivenza tra cartelli del narcotraffico, politica e polizia in Messico è cosa nota, ma nel caso di Ayotzinapa assume una sfacciataggine e una crudezza inedite. Il presidente Enrique Peña Nieto ha assicurato che verranno chiarite le circostanze dei fatti che ha definito «indignanti, dolorosi e inaccettabili», malgrado sulla vicenda si aggiri il fantasma dell’impunità, che in Messico si stende come un mantello sulle azioni di esercito e polizia.

I genitori dei ragazzi –che non hanno ricevuto nessun appoggio psicologico o economico da parte del governo- affermano che i loro figli sono stati uccisi dallo stato, non dal narcotraffico. Gli istituti magistrali in Messico vengono chiamati normales e sono luoghi che ospitano giovani molto attivi politicamente. Il governo li considera un «nido di comunisti», e ha spesso represso le iniziative di protesta dei normalistas, causando anche dei morti. In particolare la scuola rurale di Ayotzinapa era nota per il radicalismo politico dei suoi studenti.

«Immaginati se fossero stati figli tuoi», si leggeva nei cartelli dei manifestanti che mercoledì scorso si sono mobilitati in 64 città del mondo, in solidarietà con i ragazzi di Ayotzinapa. A San Cristóbal de Las Casas hanno marciato migliaia di studenti, insegnanti, famiglie intere. «Quello che è successo è un crimine di stato. Non si tratta di un gruppo di poliziotti collusi con il narco, è un sistema intero», denuncia un manifestante che ha preferito rimanere anonimo. «Davanti a questo orrore il minimo che possiamo fare è scendere in strada a manifestare, invece di rimanere paralizzati dalla paura. Spaventarci è proprio quello che il governo vuole ottenere con questa aggressione».

L’Ezln ha sfilato in un corteo a parte, per mostrare ancora una volta solidarietà alle vittime di uno stato che sembra essere una delle peggiori minacce alla sicurezza dei cittadini. L’ultima volta era stato nel maggio 2011 quando, rispondendo all’appello del Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad, marciò a San Cristóbal de Las Casas contro la guerra ai cartelli criminali promossa dall’ex presidente Felipe Calderón. La crociata antinarcotraffico del governo messicano, più che diminuire il peso del crimine organizzato nel paese, ha causato circa 100mila morti e 30mila desaparecidos.

Come nel 2011, gli zapatisti hanno camminato per la città con il nastro a lutto legato al braccio e in un profondo silenzio, che lasciava sentire solo il rumore dei loro passi. La maggior parte dei manifestanti con i volti coperti dai passamontagna erano giovani, come gli studenti di Ayotzinapa. La gente di San Cristóbal de Las Casas – una città storicamente conservatrice e chiusa – si affacciava dai negozi, dagli alberghi e dai ristoranti del centro per guardare il lungo corteo di indigeni incappucciati. Nessuno parlava, pochi bisbigliavano a voce bassa. Una signora batteva le mani gridando «viva la gente!», e gli occhi di alcuni zapatisti le sorridevano dietro il passamontagna.